da Le memorie lericine di Luigi Musetti
Diamo il benvenuto come nostro collaboratore a Luigi Musetti, classe 1931, con i suoi ricordi di guerra e d’infanzia. La redazione
(da Lerici In di aprile 2023)
Un po’ di Luigi Musetti
Conseguita la licenza media, Musetti ha frequentato un corso da elettrotecnico. Subito dopo ha iniziato a lavorare per una ditta genovese che operava a bordo di navi. La sua prima esperienza l’ha avuta sulla Clarus, una zattera da sbarco, residuato di guerra statunitense, trasformata nei cantieri del Muggiano in una piccola imbarcazione da carico. In seguito diventò commesso addetto alla vendita del pane nella Cooperativa lericina. All’epoca esisteva ancora il tesseramento annonario: pane e pasta erano razionati, quindi c’era la responsabilità dell’esatto peso per ogni singola persona, che doveva corrispondere ai bollini della tessera. Molte botteghe locali difatti erano state fatte chiudere perché in periodo di guerra avevano esercitato il mercato nero.
A diciotto anni Musetti riceve da un cugino cambusiere, imbarcato su di una nave svedese, l’invito a imbarcarsi a sua volta. L’indomani parte felicissimo per Napoli. Inizia così la sua vita da marittimo come garzone di cambusa (e in seguito cameriere al comando e cuoco), specialmente su piroscafi da carico, che all’epoca erano Liberty americani, fatti in serie durante la guerra, quindi insicuri e senza alcuna comodità. Dopo l’entusiasmo iniziale per i viaggi, la vita durissima del navigante gli regala l’asbestosi, in quanto le tubazioni dei piroscafi a vapore erano tutte coibentate con amianto che veniva inalato. Per questo motivo tutt’oggi Luigi è costretto a ossigenoterapia e ventilazione polmonare notturna. Ha navigato per quindici anni, fino al compimento dei suoi trentatré, poi ha deciso di cercarsi un lavoro in terraferma, ritornando alle sue competenze di elettrotecnica. Si è così messo in proprio come artigiano e ha continuato a fare l’installatore di impianti elettrici fino al pensionamento. Finalmente a riposo ha potuto dedicarsi alla sua autentica passione: la coltivazione della terra.
Ci ha confessato: «Ho iniziato allora l’attività per me più bella, quella del contadino, libero da tutto e da tutti. Faticosa sì, ma ti ripaga pienamente. Veder crescere di giorno in giorno quello che hai seminato, curare le viti e gli alberi da frutto, parlare con loro, sentire l’odore del fieno tagliato, ritornare a casa alla sera col cestino di pomodori, insalata, zucchini… Posso senz’altro dire che sono stati gli anni più belli della mia vita. In quest’amore per la terra ho coinvolto anche mio fratello Angelo e mia sorella Tuni. E, ancora oggi, quando passo dal Guercio e vedo la campagna, che a ottantasette anni ho dovuto mollare, tutta piena di rovi, mi si stringe il cuore».
M. Luisa Eguez
La banda del Molo
Eravamo tutti ragazzi che abitavano alla Calata, al Molo, nei carruggi, in piazza o al Piasseo e siamo rimasti uniti fino a quando i tedeschi non hanno fatto saltare le case del Molo; dopo ci siamo dispersi, prendendo ognuno la propria strada ma siamo rimasti sempre buoni amici.
Questi i nomi e soprannomi dei componenti la banda del Molo:
Colombo Baracchini (Fenòn)
Ugo Benedetti (Eminente)
Fortunato Campanella (Sigarìn)
Pasquale Campanella (Seminà)
Loris Da Valle (Er Viareggino)
Serafino De Carli (Fino er Lupo)
Amilcare Ercolini (Bafìn)
Tino Raggio (Budelòn)
Umberto Ramacciotti (Gilona)
Angelo Ratti (Studente)
Giovanni Sarpi (Revendeo)
Domenico Spina (Peo Ross)
Mario Spina (Polétti)
Giuseppe Tarabotto (Er Papà)
e infine lo scrivente
Luigi Musetti (Er Luigiòn).
A Lerici c’erano anche tre altre bande: quella di Tragià, quella del Castello e quella del Prado.
Fra di noi delle varie bande esisteva un certo antagonismo e qualche volta si arrivava anche alle mani, però difficilmente si faceva a pugni: si trattava di qualche spintone o mossa di lotta e tutto finiva quando uno riusciva ad atterrare l’altro; più che altro erano dimostrazioni intimidatorie di forza.
I principali avversari della banda del Molo erano quelli di Tragià, ma tutto si risolveva con partite di calcio giocate al Curvone, cioè all’incrocio tra via Gerini, via General Ferrari e via della Repubblica con un vecchio pallone regalatoci da Giovanni Pironi, un giocatore di pallacanestro. Il pallone era riempito di stracci cosicché farlo alzare da terra era quasi un miracolo, ma noi eravamo contenti lo stesso.
Noi della banda del Molo non siamo mai stati troppo bravi con il calcio, eravamo più propensi per il mare: gare di nuoto e con le “scafèle”, che erano barchette di un metro e mezzo costruite da noi, mediante l’aiuto dei padri o dei nonni, con delle tavole di recupero calafatate con pece e anche cemento.
A terra facevamo gare di velocità correndo intorno alla piazza. Gareggiavamo anche giù in discesa dalla Bellavista, sopra dei carretti dalle ruote fatte con cuscinetti di recupero. A quei tempi praticamente non c’erano automobili, ma poteva capitare pur sempre qualche imprevisto: per esempio, io sono andato a finire sotto un carro trainato da buoi e ho dovuto scappare dalla furia del proprietario.
Poi c’erano i divertimenti stagionali: quello delle biglie, quello delle figurine, quello delle piste su cui si giocava con i tappi delle birre; ci si divertiva a ladri e carabinieri: le cerbottane erano fatte di canne e i proiettili di carta e da lì nascevano le discussioni se i bersagli erano stati centrati oppure no. C’era poi il gioco della colonna, in cui si divideva la squadra: cinque o sei ragazzi da una parte e lo stesso numero dall’altra; si disegnava un cerchio e si sceglieva un albero fra quelli intorno alla piazza, chiamandolo “delibero”, a una decina di metri dal cerchio. I ragazzi che erano dentro al cerchio erano chiamati “lepri”, quelli fuori “cani”. Le lepri dovevano uscire fuori dal cerchio inseguite dai cani. L’abilità della lepre consisteva nel non farsi prendere dai cani e rientrare nel cerchio. Se invece i cani riuscivano a catturare la lepre, questa rimaneva prigioniera al “delibero” e restava lì finché un suo compagno lepre non l’avesse liberata. Per fare ciò il compagno doveva uscire dal cerchio e riuscire a toccare la lepre prigioniera. Questo era tutt’altro che facile perché un cane faceva la guardia al “delibero” e gli altri erano attorno al cerchio.
Se i cani riuscivano a prendere tutte le lepri risultavano vincitori. Se, al contrario, le lepri rimaste nel cerchio fossero riuscite a eludere la sorveglianza dei cani e a liberare le altre, avrebbero vinto loro; in genere le ultime due rimaste nel cerchio erano sempre le più veloci. Molte volte finiva alla pari per la stanchezza di tutto quel correre. (segue)
Luigi Musetti