30 giugno 1944: la razzia dei lavoratori del Muggiano
(da Lerici in di novembre 2024)
Tra le tante vittime del nazismo e del fascismo vanno considerati anche i lavoratori italiani costretti a lavorare nelle fabbriche del Terzo Reich, sempre più carenti di manodopera qualificata. Un fenomeno che coinvolse anche gli operai spezzini e lericini. Ma quali erano le sue radici?
Il trasferimento era cominciato dopo l’alleanza tra Italia e Germania nel 1938 e aveva riguardato oltre centomila lavoratori. Quel flusso di manodopera faceva parte di un’emigrazione organizzata, che dopo la caduta di Mussolini divenne forzata: nel senso che quei lavoratori non potevano più fare ritorno in Italia, perché la Germania li tratteneva arbitrariamente.
Ma quegli oltre centomila non bastavano allo sforzo bellico nazista: ne occorrevano molti altri. Tra i dirigenti tedeschi le opinioni furono diverse: le risorse economiche e di uomini dell’Italia dovevano essere sfruttate per l’economia bellica nazista, ma come? Hitler giudicò possibile il reclutamento di tre milioni di lavoratori. Ma l’ambasciatore tedesco in Italia Rudolf Rahn – una sorta di viceré di Mussolini, o meglio l’eminenza grigia che reggeva tutti i fili della Repubblica di Salò – non era d’accordo, perché temeva la mobilitazione antinazista. Anche a causa dei bombardamenti alleati sulle fabbriche tedesche si scelse alla fine la linea di sfruttare l’industria bellica italiana senza tuttavia rinunciare al prelievo coatto di manodopera per quella tedesca. Si trattò comunque di un numero considerevole di lavoratori: oltre ai deportati nei campi di concentramento – che pure lavoravano finché sopravvivevano – e ai soldati che avevano scelto di restare in Germania per non arruolarsi nella Repubblica di Salò – pure essi a disposizione dell’industria di guerra – almeno altri centomila lavoratori furono rastrellati in modo coatto.
Anche la Liguria fu colpita: a Genova è viva la memoria del trasferimento coatto in Germania di circa 1500 lavoratori, avvenuto il 16 giugno 1944. Alla Spezia si è persa la memoria di un fatto analogo, anche se con un numero minore di lavoratori coinvolti, perché dipendenti di una sola fabbrica: il Cantiere Navale Muggiano. Ho riscoperto questa pagina di storia grazie a Dino Grassi, che me l’ha raccontata mentre lavoravamo alla pubblicazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”. Dino – allora non ancora diciottenne – aveva molto vivo il ricordo di quel giorno, dopo il quale non tornò più al Muggiano, dove lavorava. Si licenziò, e andò a fare il contadino fino alla Liberazione, per poi tornare in Cantiere. Ogni anno, per molti anni, i lavoratori del Cantiere hanno commemorato non solo i compagni caduti nei campi di concentramento nazisti deportati dopo lo sciopero del marzo 1944, ma anche i compagni caduti nei campi di lavoro. Il rastrellamento dei lavoratori ci fu pochi giorni dopo quello genovese, il 30 giugno 1944.
L’archivio di Dino è di grande aiuto per la ricostruzione dei fatti, perché conserva alcuni testi di suoi discorsi al Muggiano in occasione del 25 aprile. In tutti questi interventi – risalenti agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta – non viene mai fatta distinzione tra i caduti rastrellati a marzo e i caduti rastrellati a giugno. Ciò emerge anche dalle memorie di altri lavoratori del Cantiere che ho potuto consultare: quelle di Soresio Montarese e di Bruno Scattina. Dino mi ha parlato anche di un operaio del Muggiano che fu rastrellato il 30 giugno e sopravvisse: Silvio Sassetoli, cattolico di Pitelli, che ha lasciato una testimonianza scritta, conservata all’Istituto Storico della Resistenza.
L’esame combinato dei testi di Dino e di Sassetoli e alcune mie prime ricerche consentono di stabilire che tre furono i caduti certi tra i lavoratori del Muggiano inviati in Germania il 30 giugno: Mario Piras, nato alla Spezia nel 1902, residente a Sarzana, operaio, deceduto per maltrattamenti a Mannheim il 7 marzo 1945; Ulderico Tozzini, nato a San Terenzo nel 1914, congegnatore, deceduto il 25 giugno 1945 all’Ospedale della Spezia, al suo ritorno dai campi; De Michelis, di cui conosciamo solo il cognome. Sassetoli fa inoltre i nomi di Lattici, Orefici e Ricco, deceduti dopo il ritorno dai campi. È significativo che i rastrellati per lavoro coatto morirono quasi tutti al loro ritorno in patria. Non erano prigionieri nei campi di concentramento, ma vissero comunque una situazione drammatica, fatta di sfruttamento, di ritmi massacranti, di sporcizia e soprattutto di fame, di sottoalimentazione: per questo il fisico di molti fu minato per sempre.
A Genova i deceduti certi furono 14, su 1500. Il numero dei deceduti spezzini è minore, ma fa pensare a un numero di lavoratori inviati in Germania non certo piccolo. Gli archivi che ho consultato non ci dicono ancora tutta la verità, ma ci aiutano a raggiungerla. Il 20 marzo 1944 il prefetto fascista Franz Turchi scrisse al Ministero dell’Interno e al segretario particolare del Duce: il 16 marzo una commissione germanica era andata al Muggiano e aveva chiesto alla direzione e alla commissione interna di avviare al lavoro in Germania 300 lavoratori. Turchi si lamentò per non essere stato coinvolto. Il 23 marzo il direttore dell’ufficio di collocamento scrisse un promemoria per Turchi: lo informava del fatto che i dirigenti dell’ufficio di arruolamento tedesco, visto che non c’era la disponibilità volontaria dei lavoratori ad andare a lavorare in Germania, chiedevano la precettazione obbligatoria di 300 lavoratori del Muggiano. Secondo il direttore dell’ufficio di collocamento la richiesta era sproporzionata, e andava ridotta.
Turchi era preoccupato per il malcontento operaio, ma non sposò questa tesi. Il 30 marzo si limitò a chiedere istruzioni al commissario nazionale del lavoro, il quale gli rispose, il 18 aprile, che aveva interessato della cosa il comandante dell’ufficio tedesco in Italia. Evidentemente i tedeschi decisero di andare avanti. Sappiamo certamente che molti lavoratori del Muggiano furono costretti, il 30 giugno, a salire in treno e ad andare a lavorare in Germania. Sappiamo che qualcuno riuscì a fuggire. Dino Grassi mi ha raccontato di come si salvò Avio Lucetti, che poi fu per molti anni vicesindaco di Lerici: alla stazione di Spezia si nascose dentro l’ampia gonna di una donna. Sappiamo che almeno tre di loro non sopravvissero. La ricerca deve continuare. E’ fondamentale restituire a tutti i lavoratori che da questa vicenda furono coinvolti e spesso travolti una biografia, una storia, un volto.
- Le fotografie sono tratte dal primo volume del libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia”.
Giorgio Pagano