(Lerici in di giugno 2020)

Abbiamo avuto la possibilità di intervistare Chiara B. (foto a destra), studentessa di Sarzana frequentatrice assidua di Lerici, iscritta alla Renmin University di Pechino, dove sta seguendo un corso magistrale di diritto cinese. Trasferitasi a Pechino nel settembre 2019, è partita da sola e il rientro dovrebbe avvenire a luglio di quest’anno. Essendosi trovata in Cina nel momento in cui è scoppiata l’epidemia da Covid-19, ci racconta come stiano affrontando i cinesi questa situazione.
D.: Ha preferito rimanere in Cina, nonostante altri italiani abbiano avuto la possibilità di rientrare in patria. Perché?
R.: Ho preferito rimanere in Cina per evitare di mettere a rischio le persone con cui avrei avuto contatti, una volta tornata in Italia. I rimpatri sono stati organizzati solo in alcune città della Cina, quelle più a rischio come Wuhan. Pechino, essendo la capitale, è sempre stata molto più controllata, quindi la situazione non è mai stata così critica da far sì che venissero organizzati dei rimpatri. Nel caso avessi voluto tornare, avrei dovuto comprare un biglietto aereo normale e fare scalo in qualche aeroporto (i voli diretti tra Cina e Italia sono stati quasi subito cancellati). Ho considerato troppo rischioso sia per me sia per le persone a me vicine intraprendere un viaggio così lungo. Inoltre, a fine gennaio-inizio febbraio, non era prevista la quarantena obbligatoria per chi arrivava in aereo in Italia. Credo che, in situazioni come questa, la cosa meno consigliabile sia spostarsi da un luogo infetto a uno sicuro.
D.: Come sono riusciti in Cina a circoscrivere quasi completamente la diffusione dell’epidemia all’interno della regione dell’Hubei? R.: In realtà questa informazione non è del tutto vera. La provincia dell’Hubei è stata sicuramente la più colpi- ta, ma molte altre città in Cina hanno registrato un alto numero di contagi. Questo è successo perché le informazioni riguardanti il virus non sono state date in tempo, la situazione è stata sottovalutata inizialmente. Solo dopo metà gennaio la notizia ha iniziato a circola- re. La città di Wuhan è stata chiusa solo 3 giorni prima dell’inizio del capodanno cinese (25 gennaio) e moltissime persone si erano già spostate nei giorni precedenti per tornare nelle proprie città natali. Per farle un esempio, io sono andata in vacanza in Vietnam dal 12 al 24 gennaio. Durante il volo di andata, nell’aeroporto di Pechino non ho sentito nessun annuncio riguardante il virus, mentre quando sono atterrata a Hong Kong in aeroporto si sentiva costantemente un annuncio che esortava le persone che erano state recentemente a Wuhan, o che avevano avuto contatti con persone che si erano recate nella città, a farsi visitare. Solo circa una settimana dopo il mio ritorno, Pechino è stata chiusa, nel senso che sono stati bloccati tutti i contatti con le altre provincie. Inoltre, non bisogna dimenticare che in Cina il controllo della popolazione è capillare, non solo in situazioni di emergenza. Questo ha sicuramente aiutato nella gestione della crisi.
D.: Che tipo di restrizioni sono state imposte a Pechino alla popolazione? Lei come si è organizzata?
R.: A Pechino è stata imposta la quarantena, seppure non stretta come quella in Italia, almeno nel mio quartiere. Si poteva uscire per la spesa insieme, si poteva uscire per una passeggiata, rispettando sempre le distanze e portando la mascherina. Molte attività all’inizio erano chiuse a causa del Capodanno e in quelle re senza mascherina e i controlli della temperatura sono ancora ovunque. Bisogna sempre portarsi appresso la carta sopra menzionata, perché in ogni posto viene richiesta come testimonianza del fatto che si è a Pechino da più di due settimane. Le università sono ancora chiuse e alle persone all’interno del campus non è tuttora permesso di uscire. Agli stranieri non è consentito l’ingresso in Cina fino a data da destinarsi, quindi è probabile che fino a settembre l’università non riaprirà. Ancora a nessuno che non sia residente di una comunità è permesso entrarci e inoltre viene imposta la quarantena a chi si muove da provincia a provincia.

D.: Sa se in Cina si parla della chiusura dei “wet market”, cioè i “mercati umidi”, accusati in Occidente di aver causato la diffusione del Covid-19?
R.: Sinceramente io non ho sentito nessun dibattito riguardo alla questione, ma non escludo che la cosa sia stata presa in considerazione. La chiusura dei wet market è una questione che riguarda molto anche la cultura. In Cina infatti i wet market sono considerati una garanzia di qualità. Poter comprare animali vivi o comunque poterli scegliere e vederli uccidere sul momento è molto importante per i cinesi, è sinonimo di freschezza della carne. Oltretutto moltissimi, anche tra i giovani, considerano la carne mangiata in Occidente come mai fresca e troppo lavorata. C’è ancora molta ignoranza per quanto riguarda le norme igieniche in Cina.

Elena Darosi