(da Lerici In di marzo 2023)

La Spezia

Alla metà del Seicento la situazione economica alla Spezia non versava in buona salute, anzi era decisamente asfittica. Il governo cittadino decide di adottare un paio di misure drastiche. Il 17 ottobre 1654 il Consiglio Comunale delibera che “si introducessero gli Ebrei ad abitare alla Spezia”, ricorda Agostino Falconi, lo storico di metà Ottocento. Lo scopo di questa misura è di favorire il commercio perché gli Ebrei erano “più discreti dei terrazzani nell’interesse delle somme che mutuavano”.

Giunsero in tanti dalla Toscana, specie da Livorno, avendo come unica condizione quella di “portare un nastro giallo al cappello per distinzione”. 

Insomma le studiavano tutte per far girare un po‘ di più i soldi. Già l’anno precedente per movimentare gli affari il Municipio aveva deciso di chiedere al Senato di Genova il permesso di indire un paio di fiere, avvenimenti che tradizionalmente aprivano le porte ai traffici ed agli affari richiamando compratori da tutti i luoghi vicini ed anche da quelli un po’ più distanti: a Ferragosto per l’Assunta e il 19 marzo per il Patrono San Giuseppe.

Il Senato della Repubblica di San Giorgio ci pensa un po’ su ma alla fine il 18 gennaio del 1654 accorda il tanto desiderato permesso.

L’autorizzazione stabilisce che le merci che viaggino per terra siano esenti da qualsiasi gravame fiscale, esenzione che però non vale per ogni mercanzia che arrivi via mare nel Golfo per la festa.

È noto quanto la Lanterna avesse a cuore il benessere dei territori vicini che da lei dipendevano. Per questa innata buona disposizione d’animo la concessione del Senato precisa che anche gli articoli che giungano via fiume siano soggetti a identica imposizione fiscale: va bene aiutare questi Spezzini ma anche Genova ha i suoi interessi da proteggere. Per capire il perché dei rapporti infelici sempre esistiti fra il Golfo e la casa madre, non occorre andare lontano.

Comunque fossero andate le cose, l’anno successivo, era il 1655, si tiene la prima edizione dea Féa che si ripresenta puntuale e sempre brillante sul palcoscenico dei giardini ben 368 anni dopo la sua prima volta. Ignoro se la nostra fiera compaia nel Guinness dei primati per la sua longevità ma certo quello che taglia anche quest’anno è un gran bel traguardo.

Non saprei dire quale edizione sia questa che sta per arrivare. Certo è che in tutti questi anni ha attraversato non poche guerre che forse imposero delle pause. È strasicuro che la chiusura per il Covid ci ha portato via anche le bancarelle ma è ultracerto che proprio per quella obbligata assenza lo scorso anno l’abbiamo salutata con maggior calore del solito e speso anche di più, lo assicurano i dati, forse per rifarci delle fiere che abbiamo perso.

Se vado indietro negli anni, ne ho tanti ormai, e ripenso alle mie fiere, io che da buon aficionado non ne mancai una se non per obblighi militari, mi vengono in mente le diverse location dove le bancarelle sono state ambientate. Le prime le ho fatte in viale Garibaldi, poi sono state spostate ai giardini da dove si sono allargate all’attuale sistemazione.

Da fante mi davano, specie i nonni, qualche lira raccomandandomi di aspettare per spendere l’ultimo giorno del canonico triduo quando stavano per partire e per non riportare indietro la merce i venditori s’accontentavano di poco. All’inizio mi compravo un fucilino ad aria compressa che sparava un tappino di sughero assicurato con una cordicella. Era un proiettile boomerang che colpiva e poi tornava indietro.

Poi, crescendo, accortomi dell’esistenza sulla terra dell’altra metà del cielo, mi compravo, come tutti gli altri fanti, delle palline ripiene di segatura tenute da un elastico che permetteva di tirarle contro una fantela e subito riaverla in mano per scagliarla addosso alla femmina che seguiva. Facevo sempre centro, non mancavo mai un colpo ma sfortunatamente non mai riuscii a colpire un cuore. Non era per malevolenza d’animo che eleggevamo le bimbe a bersaglio, era solo la nostra educazione sentimentale.

Per gli insuccessi conseguiti dirottai i miei acquisti su qualche cosa di meno impegnativo, sentimentalmente parlando, ma molto più decorativo: a resta dee nissée che vanitoso infilavo al collo pensando a quando me le sarei sgranocchiate. La collana fatta dalla filza di nocciole bucate e tenute insieme da un filo. Allora l’avevano tutti, era il simbolo della fiera così come oggi la grande kermesse è rappresentata dal panino da spunta la porchetta magari assieme a una fetta de pevéon o de sigóla.

Oggi se giri la fiera questo è l’odore dominante e ai conservatori della tradizione non resta che rimpiangere il profumo delicato dello zucchero filato, attorcigliato al bastoncino ma pronto ad avvolgersi alle labbra ed alle dita che volevano svolgerlo.

Quella massa bianca setosa che ancora non capisco come faccia a diventare così, per me è il simbolo della fiera da consumarsi assieme al palloncino che un filo leggero assicurava al polso del bimbo che lo guarda sempre estasiato fino a quando non gli scappa via per raggiungere le nuvole.

Quanti ne ho persi di palloncini da bimbo e quanti da papà! Ma mai uno da nonno: che volete, l’esperienza insegna.

Alberto Scaramuccia

Lerici

Per una singolare coincidenza Spezia e Lerici, oltre a essere confinanti, hanno stretti legami familiari fra di loro a causa dei rispettivi santi protettori con i festeggiamenti che si susseguono all’inizio di primavera e a distanza di una sola settimana: san Giuseppe, padre adottivo di Gesù, il 19 marzo e la Madonna de Lerse il 25, festa dell’Annunciazione.

Il perché sia stata eletta la Vergine a patrona di Lerici è avvenimento storico ben noto: correva l’anno 1480 quando tre pescatori (Francesco Colotto, Ambrogio Giacopello e Pietro Muzio) trovarono davanti alla punta di Maralunga una singolare tavola dipinta, probabile un relitto di naufragio ma intatto, con una doppia rappresentazione di Maria e Gesù bambino.

Nell’immagine a sinistra il bambinello tiene in mano un cartiglio sul quale sta scritto: “Madre mia io son contento purché lo peccator si penta”; frase analoga si ritrova anche nel dipinto della Madonna Bianca venerata a Portovenere.

Ai primi del Cinquecento a Maralunga sorse, a causa del ritrovamento, una chiesa con annesso cenobio. Verso la fine del Settecento, con la soppressione dei conventi, la tavola fu portata nella parrocchiale di San Francesco, ora eretta a santuario, dove nell’Ottocento si procedette all’allestimento del- l’apposita cappella.

Nel 1980 ne è stato così celebrato il quinto centenario e, fra le varie iniziative promosse dal parroco mons. Franco Ricciardi, sono state realizzate da uno studio specializzato lucchese migliaia di formelle in terracotta riproducenti l’immagine sacra che da allora si vedono murate sulle facciate di numerosissime case e palazzi lericini ma non solo, perché il culto della Madonna di Maralunga si è irradiato in varie parti del mondo: Australia, Francia, Germania, Kenya, Paesi Bassi, Polonia, Svizzera, Uganda, USA, Venezuela…

La solennità religiosa ogni anno è sempre stata accompagnata nei giardini del lungomare da un clima di allegria con tutti i suoi appuntamenti di divertimento, da quelli più tradizionali a quelli più innovativi secondo i tempi: dalle fatate giostre per i più piccoli a quella dei seggiolini volanti per i più grandi, dal tirassegno al pungiball, dall’angolo intramontabile delle pésche con le ochette al padiglione dei videogiochi, dagli autoscontri al jumping… Croce e delizia per le famiglie: delizia per bimbi e ragazzi, croce per genitori e nonni che devono sborsarne quotidianamente il costo.

Per tutti la dolcezza degli stand gastronomici: immancabile l’appuntamento con i brigidini di Lamporecchio, il croccante di mandorle o nocciole, i bastoncini di zucchero filato… Mentre di tanto in tanto, come in tutte le parti del mondo, il cielo si riempie di aquiloni o palloncini in un volo accompagnato dalle grida dei piccini.

M. Luisa Eguez