Freed from desire di Gala: la musica che unisce

(da Lerici in di settembre 2022)

A luglio abbiamo parlato di “Freed from desire” la canzone di Gala in vetta nei cori da stadio, divenuta un inno planetario che unisce non solo gli sportivi ma anche coloro che vogliono manifestare e rivendicare i propri diritti.

Da quel momento il nostro desiderio è stato quello di riuscire a intervistarla: a volte è bello sognare… e il sogno ora è divenuto realtà.

Gala (all’anagrafe Gala Rizzatto) è la cantante al top del momento. È una donna che si è fatta da sola, autonoma sin da ragazzina, anche nel lavoro, dove la casa discografica è la sua, quindi è libera di fare quello che vuole, senza il consenso di nessuno, anche di rilasciare un’intervista a Lerici In, una rivista senza scopo di lucro legata al territorio ligure, alla scuola e al volontariato.

Gala forse si è sentita in sintonia con noi e così, tra un concerto e l’altro, ha risposto alle nostre domande in modo spontaneo e sincero, come lo è la sua musica che coinvolge e lega milioni di persone che si identificano in uno stesso ideale, senza distinzioni di censo, di sesso, di orientamenti politici, anche se sconosciute tra loro.

Luisa Fascinelli

D.: Gala, sei nata a Milano ma la tua attività si è svolta prevalentemente all’estero, ci puoi spiegare perché?

R.: Quando sono arrivata all’età di 16 anni (ndr. era il 1991), non mi sono trovata più bene a scuola, percepivo che qualcos’altro mi chiamava. Ho sempre sentito questo richiamo che mio padre definiva duende, parola spagnola che indica lo spirito, il fuoco che noi artisti sentiamo dentro, come i jazzisti e i ballerini di flamenco. Sicuramente io avevo questo fuoco sin da ragazzina e sentivo il bisogno di andarmene.

A quei tempi non c’era Internet e non c’era nessun tipo d’informazione per poter andare a studiare all’estero, addirittura il mio liceo classico non dava questa possibilità per l’ultimo anno.

Quindi come una pioniera, insieme a un mio amico, siamo stati i primi ragazzi ad andare a studiare negli Stati Uniti per un anno in una scuola superiore. Avevo 16 anni, ero proprio una ragazzina e all’epoca non c’erano i cellulari con cui chiamare i genitori, con cui vedersi o sapere dove si stava, eravamo partiti veramente all’avventura.

Nella High school che ho frequentato, mi sono trovata molto bene e ho capito che avrei voluto continuare a studiare lì.

Poi sono ritornata per l’università ed è iniziato così il mio rapporto con gli Stati Uniti. Ho frequentato la New York University Tisch School of the Art, che è la scuola del cinema, dell’arte, della fotografia, delle belle arti; hanno studiato lì anche Martin Scorsese, Spike Lee e tanti altri artisti. È stata una scuola molto divertente e stimolante. Quando avevo 16/17 anni non parlavo bene inglese, mi sono dovuta arrangiare, ho dovuto imparare, non è stato facile ma ora l’inglese è la mia seconda lingua e sono cittadina sia americana che italiana. Da allora sono restata sempre a New York.

D.: Le tue canzoni sono in inglese. Per motivi commerciali o perché più adatte al tipo di musica da te interpretata?

R.: Sicuramente l’inglese è la lingua che può raggiungere il maggior numero di persone nel mondo e, poiché ho sempre avuto un forte desiderio di comunicare con gli altri, scrivendo in un inglese chiaro e aggiungendo parole chiave nella musica, il mio pensiero si è sviluppato proprio per poter arrivare a tutti: spagnoli, svedesi, tedeschi, indiani…

Ho sempre avuto un forte desiderio di comunicare con gli altri, sicuramente mi deriva dal fatto che sono figlia unica e ho sempre sentito la solitudine di essere figlia unica, la solitudine di essere un’artista e la solitudine di essere un’artista donna. Tutto ciò mi ha sempre portato a voler raggiungere gli altri, anche se poi mi piace tornare in me stessa.

A questo proposito ho avuto una conversazione molto interessante con degli scrittori americani, che mi hanno spiegato il modo di scrivere di alcuni song-writer svedesi (per esempio Max Martin, che ha creato con il suo team molte hits famose degli ultimi 30 anni da Britney Spears a The Weeknd). Il loro modo di scrivere in inglese è diverso ma è molto simile al mio.

D.: Che sensazioni provi a sentire che la tua canzone “Freed from desire” sia divenuta motivo di gioia degli sportivi, ma non solo… 

R.: Freed from desire” è usata in vari paesi diversamente. In realtà la cosa è molto “loca”, mentre in questo momento in Italia si pensa alla canzone associata al Milan, in Francia è stata utilizzata alla Marcia delle Donne dove si cantava “Women in Fire” e in Belgio è stata cantata nelle proteste degli studenti. Ho avuto poi il piacere di cantarla al Pride a Barcellona in piazza di Spagna e anche durante la World Pride a Madrid.

“Freed from desire” è cantata ovunque nel calcio ed è entrata in tutti gli sport, anche femminili.

Nel pugilato, due anni fa, il campione del mondo Tyson Fury la utilizzava quando saliva sul ring.

In Italia si parla solo del Milan ma è uno dei mille aspetti di “Freed from desire”. Mi ha fatto particolarmente piacere che sia stata utilizzata per la marcia delle donne a Parigi e per le proteste delle donne che hanno manifestato in Francia per i loro diritti.

Da venti anni ho un legame molto forte con la comunità LGBTQ anzi dovrei dire LGBTQIA(+). Queste sono le cose che mi fanno più piacere in assoluto, anche perché la comunità LGBTQIA mi ha sostenuto in tutta la mia carriera, soprattutto quando sono uscita con “Let a boy cry” che, se andiamo a vedere era un singolo, una canzone che, ai tempi in cui non si parlava di binary, no binary e di queer, parlava esattamente del concetto di quest’ultima. Se si guarda il video e si ascoltano le parole: “Soldiers and dolls won’t give away my childhood dreams. I was a pirate, I conquered, and I sailed free“, parole che dicevano “I soldati e le bambole non vi racconteranno del mio sogno di bambina, io ero una piratessa” nel senso che non giocavo con le bambole, non giocavo con i soldatini: ero in mezzo a questi ruoli di genere. Per me è molto importante questo collegamento.

La musica, come lo sport, hanno sempre unito le persone: poveri, ricchi, bianchi, neri, non importa di quale religione siano.

Vi racconto una storia proprio su questo. Ci sono due squadre di rugby in Australia, “The Sharks” e “The Bulls”, che si odiano da sempre ma, quando vincono, entrambe, cantano la mia canzone “Freed from desire”. Questo è il senso: due squadre avversarie sono unite dalla stessa musica.

D.: Cosa desideri per il tuo futuro?

R.: Prima di tutto, è molto importante che la gente sappia che io, da quando ho iniziato, non ho mai smesso di fare musica, non mi sono mai né ritirata né fermata, ogni singolo giorno della mia vita ho sempre fatto musica indipendentemente.

Una cosa molto importante che la gente non sa, è che al top del mio successo, mi sono separata dalla mia casa discografica e da quel momento sono stata sempre indipendente.  È stato più complicato ma sono andata avanti ugualmente.

È una storia lunga e complessa, che non riesco a raccontare tutta in questa intervista, però posso spiegare che uno degli aspetti è stato questo: la vita di un’artista donna indipendente, negli Anni ’90 sino ad oggi, è stata resa non facile perché, dove non ti aprono le porte, tanto meno te le spalancano.

Ogni anno che passa, poi diventa sempre più difficile, come donna e come artista, nella musica in particolare, più che nel cinema o in tanti altri campi. È stata una dura lotta però, allo stesso tempo, c’è il lato positivo: mi ha tenuto sempre molto attiva e combattiva.

D.: Sono passati più di 25 anni dal tuo primo album e hai sempre la stessa carica ed energia. Qual è il tuo segreto?

R.: Mi tiene viva questa grinta, questa voglia di fare musica, di creare, di superare i limiti e le sfide. Ho fatto sempre tutto da sola in modo indipendente, senza l’aiuto di nessuno.

Ho scelto di vivere negli Stati Uniti dove tutto era più difficile dove c’è un detto che dice: it’s better to be a big fish in a small pond than a small fish in a large pond, mentre io ho scelto di essere a small fish in a big pond (ndr. Un pesce piccolo in un grande lago) e per me il big pond è stato New York, dove ho imparato tantissimo e continuo tutt’ora ad imparare.

Ho sempre preso lezioni di teatro, canto, danza, amo apprendere e amo essere la peggiore della classe, così posso imparare dagli altri e ho appreso tantissimo in questi venti anni a New York City: tutti i miei amici sono grandi musicisti da cui ho preso ispirazione.

Una cosa a cui tengo tantissimo in questo momento è il contatto con i miei fans e voglio continuare a mantenerlo. Tanti miei followers mi dicono: “Ah, non sapevo che tu fossi su Instagram! Ah, non sapevo che avessi fatto uscire altre canzoni”. Questo mi ha dato tanto dispiacere.

Per esempio ho scritto una canzone per un film italiano, il cui titolo è “Favola”, che parla di un transgender, ho scritto due canzoni stupende molto specifiche per questo film che forse non sono il genere che la gente si aspetta. Una si chiama “Happiest day of my Life” ed è sulla colonna sonora del film “Favola” e anche sul mio Spotify personale, l’altro brano si chiama “Nameless love”.

Ho anche lanciato un album “Tough love”, tra il 2008 e il 2010, è più pop rock perché in quel periodo a Brooklyn andava molto questo viper rock che a me piace moltissimo.

Ho pubblicato altri dischi fino a poco tempo fa, dove ho allacciato una collaborazione con un’artista incredibile, Nina Paley, un’animatrice americana con cui ho fatto un bellissimo recording e video chiamato “Parallel lines”, che si trova sul mio sito www.galaofficial.com : un progetto stupendo tra due donne artiste che si sono incontrate. È stato messo in primo piano su Rolling Stone Italia e Rolling Stone South America.

Per il futuro voglio continuare a creare musica e combattere contro queste limitazioni sia sociali sia del music business, sia del sexism e dell’ageism, tutto insieme; a me piace lottare, mi piacciono le sfide.

Luisa Fascinelli

Potete seguire Gala su:

www.galaofficial.com

Instagram: @galaofficialpage

Facebook: @galasound