(da Lerici In di novembre 2022)
“Gli Abetini”, romanzo scritto dal grande autore tedesco Johannes Burkhardt che qui usa lo pseudonimo di Ossip Kalenter pubblicato negli anni Cinquanta dopo il secondo viaggio dello scrittore a Lerici, è un affresco della vita di Abeti, nome di fantasia sotto il quale si scorge la cittadina posta ad una delle estremità del golfo di La Seppia (La Spezia). La data della pubblicazione in tedesco (1950 e 1959) è però posteriore al periodo della stesura della maggior parte dei testi, che, come si evince da diversi particolari datati, si colloca negli Anni Trenta, quando l’autore abitò a Lerici dal 1932 al 1934. San Terenzo è San Tiburzio, Pugliola Prugnola, Sarzana è Zanzara…, così tanto per darvi un’idea.
Oggi lo leggiamo nella traduzione di Liviana Ferdeghini. Essendo un testo difficile da decifrarsi, pensando di fare cosa gradita ai lericini, io e Alessandro Manfredi abbiamo deciso di addentrarci più da vicino nei luoghi e nei personaggi tentando di ricostruire un vademecum di decodifica, in poche parole come si fa, con “L’Ulisse” di Joyce quando si vuol ricomporre la tortuosa giornata del 16 Giugno vissuta da Leopold Blum! Con questa esagerata comparazione contraddico la proverbiale “sobrietà” dei lericini!
Per fare questo abbiamo intervistato alcuni lucidissimi ultra novantenni, Caterina Zanello e Silvano Righetti. Utilissima dal punto di vista documentario ci è stata la Guida del Golfo dei Poeti di Silvio Nicola Aicardi del 1924 e l’Annuario Generale d’Italia del 1935.
I quattordici brevi capitoli del libro riportano con spirito bonariamente ironico vari momenti della quotidianità di questo “piccolo paese abitato da un popolo orgoglioso e libero”, un altro aggettivo che Kalenter utilizzerà nei confronti degli abetini sarà onesti.
Limitiamoci per ora a questi tre aggettivi positivi nei nostri confronti e senza dubbio possiamo esserne soddisfatti. Ciò che da subito colpisce lo scrittore è l’atteggiamento di placida indifferenza con cui gli abitanti di Abeti accolgono qualsiasi novità, stato d’animo che non abbandonerebbero neppure se il re d’Inghilterra venisse a sedersi al Caffè Dante in piazza Cesare Battisti.
Lo scrittore è convinto che anche il suo romanzo sarà accolto dai Lericini con la consueta tranquilla nonchalance, ma di questo non ne sarei così sicura, molto soddisfatta era già stata Piera Basadonne quando ne aveva scritto nel 1985 su Il Golfo dei poeti, il grande periodico diretto mirabilmente da Piero Colotto, traducendo due capitoli del libro.
Bene, dopo tutte queste necessarie premesse siamo pronti per iniziare, resta però un punto importante, per capire bene quello che spiegherò dovreste aver letto il libro di riferimento, se non lo avete già fatto cercherò di invogliarvi a farlo.
Iniziamo il nostro percorso e immaginiamo che il re d’Inghilterra sia seduto a un tavolo del caffè Dante che era in realtà il caffè La vittoria in piazza Cesare Battisti di proprietà di Matteo Faridone che era il nonno di Filippo e Raimondo Pagano. Il sovrano è comodamente seduto, osserva gli altri avventori e tutti possono riconoscerlo. I lericini o meglio gli Abetini non si curano assolutamente di lui e qui Kalenter addirittura chiama in causa Erasmo da Rotterdam, adattando una sua affermazione tratta dai Colloquia al carattere degli Abetini e mostrando così di conoscerli bene… “…Nessuno ti saluta quando arrivi perché non vogliono far credere di circuire il cliente…”
Più che il timore di essere accusati di voler circuire il cliente, i lericini vogliono far sapere che non hanno bisogno di lui perché fondamentalmente non hanno bisogno di nessuno!
Nel loro scetticismo genetico non si esaltano assolutamente nemmeno di fronte a grandi personalità, in questo caso, appunto il re d’Inghilterra….
Ma vorrei soffermarmi un momento su quegli anni e “dilato” un po’ la vicenda perché voglio farvi immaginare Lerici anche sotto un aspetto più ampio, il nostro borgo infatti ci appare straordinariamente vivace.
Il 1933 è l’anno in cui Filippo Tommaso Marinetti, attratto dall’impatto visivo di un paesaggio urbano industriale con gli impianti mercantili, cantieristici e militari della Spezia, unito alla bellezza naturale del Golfo, frequenta le nostre zone per organizzare il Primo Premio del Golfo, e si sofferma molto spesso al Caffè Dante di Basilio ed è anche l’anno (16 agosto 1933), in cui il comandante lericino Francesco Tarabotto alla guida del mitico transatlantico Rex nel viaggio da Genova a New York ottiene il prestigioso riconoscimento del Nastro Azzurro.
Riporto le parole di Marinetti tratte dal “La terra dei vivi” quindicinale di turismo, arte, architettura coordinato dalla direzione artistica di Fillìa (Luigi Colombo) il redattore capo era lo spezzino Renato Righetti, al quale la cultura locale deve moltissimo.
“Nelle serate di questo Agosto al caffè Vittoria di Lerici, davanti alle montagne e alle isole insanguinate del tramonto, in una simultaneità d’acque fulgenti, lampadine colorate, muscoli, bagnanti seminudi e squadriglie di ragazze a braccetto belle e spavalde, pittori e pittrici discutono animatamente dei nuovi problemi plastici imposti da questo Golfo insieme tanto misterioso e tanto eccitante per la fantasia. L’altezza raggiunta dalle discussioni e l’intensità del fervore artistico generale si aggiungono alle garanzie offerte da una giuria assolutamente equilibrata dove tre futuristi bilanciano gli altri quattro tradizionalisti e avanguardisti”.
Bene, eccoci seduti all’aperto al Caffè Dante. L’attenzione del sovrano si sposta poi sull’avvenente ragazza che serve ai tavoli, gli anziani più attempati che abbiamo contattato, pensano di avere riconosciuto nella Viola descritta da Kalenter la giovane figlia di Matteo Faridone, Wilma.
Matteo Faridone, Basilio nel testo di Kalenter, aveva cinque figlie femmine: Ordelia o meglio Cordelia di shakespeariana memoria, Fillide di classicissima memoria sposata a Gino Bellini che gestiva la drogheria lo Svizzero che poi diventerà di Mario Menolli marito di Ordelia e padre di Silvana recentemente scomparsa; le altre erano: Celsa, Anna la maestra e Wilma la più piccola.
Viola dai capelli biondo cenere chic, svelta e attraente saluta in modo spigliato, con un cenno del capo tutti gli avventori. Consiglia a tutti l’americano l’aperitivo, l’amaro rosso cinabro che gli abetini bevono in questi tempi. Qualcuno dei nostri intervistati ci ha detto che forse parlare di Americano era un po’ esagerato, ma noi pensiamo che fosse possibile, i marittimi lericini viaggiavano e sbarcavano costantemente in America, visitavano New York (NeYorke o Neva Yorke), quindi chiaramente potevano aver portato questa moda dell’Americano a Lerici già ben prima degli Anni Trenta. (continua)
Margherita Manfredi
(da Lerici In di dicembre 2022)
Il re d’Inghilterra incontra Policarpo, Bracchetti, Lidia e Carlino
Da piazza Dante seguiamo il re d’Inghilterra che prosegue lungo via Pisacane ed entra nei locali che un tempo furono del favoloso Bar Sport, poi Magia del gelato; qui si trova l’Emporio del Sor Policarpo un uomo di bassa statura, molto irritabile (in realtà la memoria storica di Lerici, il 96enne Silvano Righetti, lo definisce alto e magrissimo), con una barbetta “tremolante” da capra. Questa similitudine ci fa pensare alla poesia di Saba e al verso In una capra dal viso semita in cui il poeta riconosce il suo dolore e quello universale del mondo.
Policarpo a detta di tutti gli intervistati è Stanislao Pulignani, commerciante di origine ebraica che gestiva un negozio fornitissimo in cui si vendeva “il migliore assortimento di tutto quello che si può ricondurre al concetto di spezie… dal maraschino alle macchine fotografiche ai cetrioli sott’aceto o alle edizioni in brochure di Tolstòj”. Caterina ha ricordato un episodio raccontatole da sua madre di quando un signore, sicuramente un foresto, entrando nel suo negozio gli chiese: “Avete per caso questo prodotto?” e Policarpo immediatamente “Qua non si chiede se l’abbiamo, si ordina il prodotto stesso”. Ma la stessa risposta, indipendentemente dal luogo di nascita, era rivolta anche a tutti i lericini che gli ponevano la fatidica domanda. Ce lo conferma anche Righetti che ricorda che lui e i suoi amici, bambinetti di 7/8 anni, entravano di corsa nell’emporio chiedendo a Policarpo se avesse una candela, suscitando ire furiose. Pulignani gestiva anche una pompa di benzina Shell che dopo il riempimento del 1936 /38, si trovava sulla strada verso il lungomare.
Bene, il re entra nell’emporio per acquistare della carta da lettere per scrivere al duca di Gloucester, ne uscirà senza aver fatto acquisti e non si sa di preciso cosa fosse successo all’interno. Sicuramente un tipico siparietto da commedia dell’arte!
Il sovrano entra nella tabaccheria che si trova accanto all’emporio, di proprietà del signor Bracchetti, che senz’altro corrisponde al signor Baracchini. La tabaccheria dei Baracchini me la ricordo benissimo anch’io, perché sarà di loro proprietà sino agli anni ‘90.
Il re acquista una cartolina illustrata e chiede anche un francobollo, su questa richiesta il signor Bracchetti va un po’ in crisi, cosa che gli succedeva ogni qualvolta gli si chiedeva qualcosa di diverso da un Toscano e tre Macedonia! Quindi chiama in suo aiuto la nipote Lidia e dalla tenda di perline di vetro esce una ragazza che Kalenter definisce una dea ex machina, con un viso meraviglioso dipinto di cera e di porpora con gli occhi color agata. Lidia che in realtà si chiamava Luisa, col suo sorriso immutabile che vale tanto per il re quanto per i ceti umili, offre al re d’Inghilterra il francobollo giusto di colore rosso fragola.
Dopodiché il re passa davanti alla chiesa di San Pietro (San Rocco) e attraversando il mercato del pesce e della verdura (sito in piazza Garibaldi) arriva all’alto Palazzo (forse il palazzo dove c’era l’albergo ristorante Italia e un tempo sede della giustizia genovese) dove al piano terra ha la sede il comando del Porto con sopra lo stemma con tre abeti d’oro, pianta inesistente a Lerici come dice lo stesso autore.
Da qui si reca nella trattoria del signor Carlino sulla calata il cui interno è simile per dimensioni alla cambusa di una nave, tanto è piena di marinai e di naviganti e di doganieri. Questa descrizione è molto colorita, ci dà il senso delle trattorie liguri dei primi decenni del Novecento dove confluiva una infinità di gente di mare. La piccola trattoria diventerà poi il ristorante La Calata (foto sopra) che è uno dei più antichi di Lerici risalendo al 1883, sarà molto famoso quando negli anni 60/70 era frequentato dalla jet society di intellettuali che attorniavano in cerca di fama e di successo la villa Rupe Canina dell’editore Valentino Bompiani, oppure da personaggi famosi nazionali e internazionali, che quando sostavano a Lerici volevano degustare la famosissima zuppa di datteri di Gino alla Calata. La Calata esiste ancora oggi ed è un ottimo ristorante gestito da Silvano Solari che negli anni 60/70 era un giovane aiuto cuoco.
Ma veniamo alla identificazione dei personaggi e cerchiamo di scoprire chi è Carlino: secondo il nipote Giorgio Grieco, il personaggio doveva essere suo nonno Alfredo che come Carlino aveva navigato come cuoco di bordo per poi aprire la trattoria con il padre Gino e il fratello Aldo. (Quindi nella realtà il padre era Gino, i figli erano tre, due maschi, Alfredo che era lo chef, e dalla descrizione dovrebbe essere Carlino e Aldo, padre della attuale giornalaia di piazza Bacigalupi angolo via Gerini, e una figlia femmina, Karis).
Anche Carlino dapprima ignora un po’ il re secondo la consuetudine lericina, poi si avvicina al tavolo e propone, trattandosi del re d’Inghilterra, invece dei soliti spaghetti in salsa di pomodoro la famosa zuppa di datteri serviti su pane bianco e ricoperti di una salsa di vino alla cui complicata preparazione il maestro si dispone raramente.
Carlino a questo punto è conquistato dal regal personaggio, si siede accanto a lui raccontando storie del locale ingrandite notevolmente; il cuoco ricorda come durante una festa religiosa e quindi o per Sant’Erasmo o per la Madonna di Maralunga in un’indimenticabile domenica, il suo locale – simile per dimensioni e per ressa alla cambusa di una nave – riuscì a fronteggiare… l’assalto di ben 220 persone che verranno poi aumentate a 319 per rispetto al rango del sovrano!
Sul conto da far pagare al re, Carlino alza un po’ il prezzo, sempre per rispetto al rango, ma non di molto… (segue)
Margherita Manfredi
(da Lerici In di gennaio 2023)
Ercole, il Factotum Mobile
Il cap. III è dedicato a Ercole che in realtà è Merico (Merico, Americo Bertacchi).
Ercole è il più amabile di questi personaggi singolari, che si distinguono per disturbi mentali o per difetti fisici: un giovane uomo di neanche vent’anni, dalla figura slanciata, gli occhi ravvicinati, con uno sguardo da folle e un viso ingenuamente infantile e non brutto. Viveva solo, forse i suoi genitori erano partiti per l’America e non erano più tornati. Su questo personaggio la cui eco è giunta sino a noi, che non abbiamo potuto conoscerlo perché purtroppo nel 1949 lascia Lerici per essere ricoverato a Volterra dove muore nel 1976, Kalenter si sofferma a lungo, attribuendogli largo spazio.
La sua mania più appariscente (ne ha in gran quantità) è la passione smodata per i vestiti. Tutti i nostri ultranovantenni intervistati mettono in evidenza l’eleganza di Merico, il suo fornitissimo guardaroba, gli abiti sempre appropriati che mutava anche più volte al giorno.
Renato Righetti ricorda che veniva invitato per allietare le cerimonie con la sua bella voce, ci racconta di averlo incontrato da bambino, tutto azzimato in tuba e frac, pronto a prendere il vaporetto per Portovenere per presenziare a un matrimonio. E questo è quello che di lui diceva anche Colombo Bongiovanni nel suo pamphlet “Ricordiamoli con simpatia”: “Come facesse poi ad essere costantemente informato dei compleanni e degli onomastici dei lericini (non dimenticava assolutamente le persone di riguardo) non si sa. Fatto sta che al momento giusto capitava in casa del festeggiato, ove era ben accolto, faceva gli auguri a modo suo, magari cantando, e consegnava il suo biglietto da visita, unico e bello pulito, che dopo il bicchierino e l’immancabile mancia, richiedeva indietro per averlo a disposizione nelle successive occasioni”. Ercole (Merico), sarà protagonista di un’intera esibizione canora presso la trattoria del pingue Giuseppe, che a detta di un’in-tervistata potrebbe essere un certo Marziale, nonno di Merico, il padre di Laura, la madre di Merico.
Il locale del pingue Giuseppe, in base alla descrizione che ne fa Kalenter era senz’altro nel Piasseo, era una trattoria fornita di radio, l’aradio come dicevano i popolani, che suonava tutto il giorno ad altissimo volume, mandando in onda anche i notiziari. Una sera lo strumento si ruppe, sarà Ercole a sostituirlo. Ecco la descrizione che ne fa Kalenter: “Si presentò con grande agitazione con in mano una pentola, una frusta da cucina di metallo, diversi fiaschi di vino, e quella sera si vestì come un dandy, con i pantaloni a quadretti, le calze verdi, la giacca nera e cravatta lilla e un cappello di paglia leggermente ammuffito e si posizionò dietro l’altoparlante che troneggiava ad altezza d’uomo sopra la credenza e quando dalle romantiche case alte strette cominciarono a uscire i nottambuli per la passeggiata serale risuonava giù sulla piazza la Marcia trionfale dell’Aida cantata in una pentola di alluminio dall’invisibile Ercole con spiegamento di tutte le sue forze. La serata era entrata nel vivo, i primi ospiti arrivavano, tutto era come sempre. Ercole intonò la Marcia di Garibaldi, l’Inter-mezzo della Cavalleria rusticana e un potpourri del chiassoso Mefistofele di Boito… Quando era stanco di cantare passava al notiziario. Quando si sentiva quasi rauco provocava dei disturbi con la frusta e con le stoviglie di latta mentre con la mano libera si portava alla bocca il fiasco che gli dava nuove forze e nuove idee.
Nessuno si accorse dell’innocente inganno e dopo che anche l’ultimo cliente se ne fu andato, poco dopo l’una tirarono fuori Ercole dal suo nascondiglio pieno di ragnatele, mezzo morto ma ancora impegnato a cantare nella pentola di alluminio”.
E, straordinaria meraviglia… nessuno ad Abeti se ne accorse e se ne lamentò…ed ecco un’altra cosa strana di questo paese!
Capitolo IV Ercole conosce i baci di fuoco delle sorelle Prezzemoli
In estate Ercole …fa il maggiordomo delle signorine Prezzemoli, queste tre sorelle venivano in villeggiatura da Parma, avevano una corporatura un po’ abbondante data la splendida tradizione culinaria parmense, e abitavano in una casa di campagna di color rosso geranio, presa in affitto da parenti, appena sopra a Lerici… Ballavano dalla mattina alla sera e in autunno ritornavano a Parma…
Ercole riceveva saltuariamente anche qualcosa dall’America dai suoi genitori…
Faustina la postina (a detta della nostra suggeritrice Caterina, era Livietta Zanelli) che ci vedeva pochissimo, al primo di ogni mese gli consegnava puntualmente le 10 lire provenienti da Parma… finchè a gennaio non arrivò nulla. Un amico di Ercole, Demetrio (che era un gran burlone) si incarica di scrivere una lettera a Gilda, una delle sorelle, per chiedere le 10 lire…“Pregiatissima signorina Gilda, con la presente mi onoro di comunicarle che il sostegno di L. 10 a me finora amichevolmente accordato, questo mese non è pervenuto. Le sarei con un grande ringraziamento obbligato, se provvedesse al versamento il più presto possibile e la saluto con l’espressione della massima deferenza, il suo devoto Ercole”. Gilda dopo pochi giorni viene da Parma e come lo incontra gli rifila un ceffone … e gli legge la lettera ricevuta in cui campeggiano frasi del seguente tenore: “Amiche amatissime penso ancora alle notti bollenti fra le vostre braccia, ancora mi dolgono le labbra per i vostri baci ardenti, ancora conservo i guanti di Parigi, sebbene dopo la vostra partenza non abbia più avuto, purtroppo, alcuna occasione di indossarli…”.
Ercole tutto contrito disse di non aver scritto la lettera… Gilda immediatamente capisce il tiro mancino di Demetrio, offre il pranzo a Merico nella trattoria di Carlino, come risarcimento per lo schiaffone, e gli dà le 10 lire. Erano molti i buontemponi che a Lerici facevano scherzi, tuttora se ne favoleggiano di molti eseguiti da noti personaggi degli anni sessanta e c’è chi fa ipotesi sull’identità burlona di Demetrio! (segue)
Margherita Manfredi
Gli schizzi che compaiono nel libro Die Abetiner sono del disegnatore Gunter Böhmer.
(da Lerici In di febbraio 2023)
Quest’articolo del 2023 sarà l’ultimo sugli Abetini, il bel libro di Kalènter merita una lettura e forse, se avremo tempo, io e Alessandro pubblicheremo un piccolo opuscolo come Guida alla lettura del libro, si sono detti disponibili i nostri anziani informatori che hanno ancora ricordi sull’epoca per farci individuare quei nostri lontani concittadini. In quest’ultima sintesi presenterò alcuni nuovi personaggi, in particolare
Amleto e Livio.
Entrambi compaiono nel capitolo quinto intitolato Il bel Livio conosce vecchie ricette segrete. Il bel Livio è apparentemente il macellaio di via Pisacane, la sua è la macelleria situata di fronte alla “Pasticceria Lo Svizzero”, a fianco all’Emporio di Policarpo (Stanislao Pulignani) che tra l’altro è suo suocero perché Livio ha sposato sua figlia Ersilia; i nostri informatori anziani però ci hanno fatto notare che il macellaio, alias Ovidio Cabano, non brillava per particolare bellezza e forse corrispondeva poco alla descrizione fatta dall’autore tedesco che quando parla di lui si lascia sempre andare a commenti positivi sul suo aspetto fisico. La descrizione invece, corrisponde alla figura di Amedeo Perazzo, altro macellaio importante di Lerici che aveva il negozio davanti alla chiesa di San Rocco; il geniale scrittore tedesco molto probabilmente ha voluto mescolare caratteristiche dei due per non compromettersi troppo con i personaggi reali.
Amedeo Perazzo (padre di Irene, Mario e Vittorio) aveva una presenza aitante, una forte propensione per gli scherzi e mostrava una naturale galanteria nei confronti di tutte le signore che frequentavano il suo fornitissimo negozio. Kalenter così dice di lui… “il divino macellaio, con la testa di un Borgia e il sorriso di un seducente Apollo tardo antico”.
Amleto (forse Er Sor Narciso Baracchini nato a Lerici nel 1861) è l’altro personaggio del racconto ed è un ciabattino di modeste condizioni economiche, il suo negozio si trova a San Tiburzio (San Terenzo) e in realtà ci viene detto che l’esercizio era a Lerici; Amleto è del tutto insignificante nell’aspetto, ha un abbigliamento sempre trasandato e, a differenza di Livio, è del tutto ignorato dalle ragazze.
Per un improvviso colpo di fortuna Amleto entrerà in possesso di una cospicua somma di denaro trovata nascosta in uno stivale del marito defunto portatogli a risuolare da una vedova di Prugnola (Pugliola).
A questo punto il calzolaio deciderà di cambiare vita, chiuderà il negozio e vivrà di rendita, comincerà a vestirsi con eleganza e soprattutto vorrà suscitare interesse nelle belle Abetine che sempre lo avevano disprezzato, prendendo lezioni di galanteria da Livio dalla testa di dio romano e dal sorriso smagliante.
Amleto era abbagliato “dalle ragazze e dalle donne che ogni giorno a grappoli si affollavano attorno al bancone” … “e ancora sentiva le risate aperte e il ridacchiare oltremodo eccitato che dal primo mattino sino alla sera risuonavano nel negozio”, ecco l’ex calzolaio voleva trasformarsi in Livio.
“Dimmi come fai” dice Amleto a Livio e Livio, già pensando al raggiro che vuole propinargli, gli risponde “tu devi fare la cura”.
Questa terapia decisamente redditizia per lui, consiste nell’acquisto di una notevole quantità di carne di qualità pregiata e di midollo da utilizzare ogni giorno per fare del consommé.
Dopo quattro settimane Amleto dice a Livio che la cura non funziona. “Tu stai facendo la piccola cura” gli dice Livio “devi fare la grande cura” e spiega ad Amleto che questa consiste nella continuazione della prima, cioè tutti i giorni un consommé di carne pregiata assieme a una cialda, “un cachet” da acquistare in farmacia. Livio, si mette d’accordo con Fiorenzo, un giovane abbronzato con riccioli neri che fa il commesso nella farmacia di Gelsomino (Paolo Ghigliazza) situata n’tra er Canae, perché fornisca ad Amleto una cialda con una polverina bianca ovviamente del tutto innocua.
(La farmacia di Paolo Ghigliazza, nonno dell’omonimo farmacista, si trasferirà a San Terenzo dove si trova attualmente e quella lericina verrà acquistata dai Giudici nel 1940 e da piazza Garibaldi si sposterà in via Pisacane).
Dopo otto giorni di questa seconda terapia, Amleto diventa sicuro di sé, si sente forte ed è convinto di essere guarito: entrando nella macelleria aitante ed esterna battute spiritose. Sarà perché la nuova gioia di vivere gli permette di diventare più simpatico che le giovani donne cominciano stranamente ad ascoltarlo e dopo un po’ di tempo anche a ridere delle sue battute.
Dopo questo miracolo, poiché Amleto non aveva certo tenuto la bocca chiusa sul segreto di Livio, nella macelleria si presentarono non soltanto le consuete ragazze, ma anche donne più anziane chiedendo se anche per le donne potesse funzionare la cura. Il bel Livio si limitò a dire, con le labbra quasi chiuse e in modo sprezzante, “queste sono cose da uomini”.
Con questo cammeo bozzetistico, degno di un piccolo sketch teatrale, (il libro di Kalenter, ne presenta molti) termino il mio lavoro, rimandando appunto al volumetto Gli Abetini, dove potrete trovare altri memorabili racconti. Fra questi, quello dedicato alle passeggiate delle bellissime ragazze lericine, oppure la presentazione di Baldassare (Biribigi) su cui Kalenter si sofferma con arguzia, ironia, grande umanità e commozione.
E ancora la presentazione ironica, a tratti un po’ sarcastica ma sempre bonaria di personaggi importanti, i vip dell’epoca, il giovane sindaco tarchiato come Napoleone (Emilio Biaggini), il cavaliere Calabrone (Oreste Bardellini), il commendator Canata (Gervasio Carpanini ) e poi il bellissimo finale in cui lo scrittore tedesco lascia Abeti con il cuore pesante, con una grande tristezza e malinconia in una chiusura ricca di pathos che mi ha fatto pensare ai Malavoglia quando ‘Ntoni dice addio ad Acitrezza. (fine)
Margherita Manfredi