(da Lerici In di Giugno 2023)(foto in evidenza: Evening at Mara Lunga di Nino Costa 1878)

  La copertina del libro di Margherita Manfredi e particolare del Convento in un dipinto di Hans Thoma 1883

I Padri Reverendissimi dei Monasteri Agostiniani della provincia di Lombardia nella relazione del 1650 raccontarono, alla voce “Lerici”, come nacque il convento di Maralunga:

«Questo è un quadro che fu ritrovato da certi pescatori di cognome Collotto e compagni nell’onde del mare vicino al suddetto scoglio, e ciò fu del 1480. Nel quadro sono due Madonne con Gesù in braccio. Fu ben subito fatta una cappelletta senza altro assegnamento. Quindi capitando a Lerici un Padre della nostra religione di buono esempio, e forzato dal tempo cattivo si trattenne 15 o 20 giorni; nel quale tempo vedendo i paesani la sua pazienza e devozione ebbero per bene di offrirgli e raccomandarli la suddetta cappelletta, alla quale fabricarono habitazione di due stanze».

Il frate agostiniano si chiamava Urbano da Tortona. I lericini, entusiasti per il suo comportamento, gli affidarono la custodia della cappelletta e realizzarono accanto una casupola. Frate Urbano capì che era necessario costruire la chiesa e il monastero per accogliere i sempre più numerosi pellegrini che accorrevano, o con piccole imbarcazioni o attraverso il sentiero che da dietro il castello portava alla punta della scogliera, a venerare la sacra icona.

All’origine di quanto scritto nella relazione c’era, come spesso avviene, una leggenda: quella del ritrovamento – il 25 marzo 1480 lungo la scogliera di Maralunga, da parte di tre pescatori, Francesco Colotto (non Collotto), Ambrogio Giacopello e Pietro Muzio – delle tavole pittoriche recanti l’immagine di una Madonna con il Bambino. Il luogo preciso è ancora oggi incantato: la grotta detta “Tana del Brigantino”.

Il convento di Maralunga scomparve ai primi dell’Ottocento, con l’avvento dell’età napoleonica. Era proprio necessario, dunque, andare alla ricerca del Convento scomparso. È quel che ha fatto Margherita Manfredi (foto sopra), lericina, con il bel libro che porta questo titolo, e che è basato sullo studio dei documenti di più archivi.

Il libro è in primo luogo un libro sulla devozione e la religiosità nel golfo. Che ha origini antichissime – si pensi a San Venerio – ma ebbe un impulso particolare a Lerici, dato lo stretto legame con Sarzana, dopo il 1450, quando il sarzanese Tommaso Parentucelli divenne papa Niccolò V.

La leggenda che è all’origine del convento ricorda quella del ritrovamento del dipinto di Porto Venere della Madonna Bianca e di quello di San Terenzo della Madonna dell’Arena.

Per Porto Venere la leggenda racconta che il 16 agosto 1399, in casa sua, Luciardo, un umile popolano, stava pregando davanti a un’immagine della Madonna.

Nella stessa stanza c’era un’icona mariana più antica, che era giunta in paese all’interno di un tronco di cedro del Libano, dove era conservato il dipinto. Mentre Luciardo pregava, la vecchia immagine annerita riprese colore poco a poco: i portoveneresi gridarono al miracolo.

A San Terenzo la tradizione vuole che il dipinto della Madonna dell’Arena sia stato trovato pescando tra Lerici e San Terenzo, in epoca di poco precedente al ritrovamento di Maralunga. I pescatori erano santerenzini e il dipinto finì a San Terenzo, ma era stato pescato in acque lericine. Da qui le liti continue tra i due borghi.

La studiosa Giuliana Algeri ha sostenuto che la Madonna di Maralunga richiama nella parte sinistra il dipinto di Porto Venere, e nella parte destra quello di San Terenzo. Probabilmente i lericini commissionarono la Madonna a un pittore locale o di area toscana o emiliana per rivaleggiare con Porto Venere e San Terenzo.

Da allora fino a oggi, ogni 25 marzo i lericini organizzano una processione sul mare che arriva fino a Maralunga: è la loro festa. Il culto popolare è così forte che la formella in terracotta con la doppia immagine è presente nelle facciate e negli atri di molti palazzi di Lerici.

Foto 1 – l disegno del convento di Maralunga di George Keate “A Convent att Lirici”, risalente al 1754-1755 ed esposto al British Museum di Londra (foto Alessandro Manfredi) – foto 2 – La mappa del convento di Maralunga disegnata da Giobatta Chiodo, risalente al 1817, conservata all’I. G. M. Firenze (foto A. Manfredi)

Il libro studia anche tutta la storia successiva.

Nel 1629 la chiesa di Maralunga, fino ad allora sempre nominata con il titolo di Santa Maria delle Grazie, prese il nome di SS. Annunziata. Nella chiesa si formò l’Opera di Sant’Erasmo, la confraternita degli uomini di mare, che assunse la funzione di ente portuale.

Nel libro c’è la macrostoria: quella di Lerici dal 1480 al 1799. Lerici fu sempre con Genova, che riuscì nel 1487 a difenderla dall’attacco di Firenze. Genova e Lerici furono poi asservite a Milano. Lerici acquistò una crescente importanza commerciale e divenne tappa degli itinerari dei pellegrinaggi tra Roma e Santiago di Compostela. Si formò così una nuova classe borghese, notevolmente ricca, come si può vedere dai palazzi lussuosi, dai ricchi giardini e dalle committenze religiose.

E c’è la microstoria: quel-la su come vivevano i monaci e i lericini del tempo.

I primi avevano una funzione educativa, non solo religiosa. Dai libri del convento – che vanno dal 1612 al 1799 – sappiamo tutto dell’alimentazione dei monaci e di cosa allevavano – galline – e coltivavano – olivo e vite. Sulla tavola c’era molta pasta fatta in casa, e poi carne, verdure, uova, stoccafisso, olio, vino. Molto gradita la panizza.

I lericini erano navigatori ma anche contadini. Le campagne dei dintorni erano coltivate a vite, olivi, fichi, castagne, agrumi, lino. Funzionavano un mulino a vento – nella zona verso la Caletta – e un frantoio più verso Lerici, di cui oggi si conservano alcuni resti. Ma la storia è sempre anche storia contemporanea. Margherita Manfredi, guidata dall’amore per i nostri luoghi, riflette anche su come i lericini hanno perduto nei secoli complessi architettonici e opere d’arte di notevole valore, e su come cercare di recuperare e valorizzare tutto ciò che resta. Bellissimo e difficilissimo impegno, di cui discuteremo nel prossimo articolo. (segue)

Giorgio Pagano