(la ricerca storica, condotta da Luciana Piazzi con un’intervista a Silvio Bertieri, è stata pubblicata su Lerici In… di settembre, ottobre, novembre, dicembre 2020 e gennaio 2021)

Prologo

Esordio nella regia di Andrea Calevo (foto sopra), titolare della nota azienda a conduzione familiare nata a Romito Magra nel 1888,

a metà luglio 2020, ha infatti presentato presso l’Arena estiva di Piazza Europa, alla Spezia, un cortometraggio intitolato “Piccoli momenti”.

“L’anno scorso ho iniziato questa nuova esperienza grazie all’aiuto di Alessio Ciancianaini, di cui avevo frequentato un corso. Ho avuto un passato legato al teatro, ma non mi ero mai avvicinato al cinema o alla regia. Mi sono appoggiato a un team di professionisti perché l’intenzione era quella di fare qualcosa che non fosse amatoriale. È stata davvero un’esperienza interessante, stimolante”. Andrea Calevo ha curato la sceneggiatura e la regia, avvicinandosi a quello che è un sogno che si porta dietro da anni: realizzare un film.

Il cortometraggio indaga l’origine della felicità ed è stato girato a Lerici e La Spezia in collaborazione con professionisti locali e non, tra cui, in particolare, il regista Alessio Ciancianaini che ne ha curato la fotografia e Alessandro Chimienti, com-positore e chitarrista della band di Mannarino, che ha realizzato le musiche originali.

“Sono molto curioso di scoprire se il mio lavoro piace, ma per il momento resta un hobby”, anche se a settembre dovrebbe già iniziare le riprese per un secondo lavoro che si intitolerà “Gratta e vinci”: sarà girato con un linguaggio più leggero rispetto all’opera d’esordio e, molto probabilmente, verrà ambientato a Pontremoli.

Storia della dinastia imprenditrice

Questa passione cinematografica potrebbe sembrare strana e inconsueta in un imprenditore che si occupa di edilizia, ma in realtà nella dinastia dei Calevo esiste un “precedente”: il bisnonno Giuseppe Calevi (non Calevo per ora, come sarà spiegato più avanti), fondatore dell’a-zienda, aveva un fratello, Mattia Cesare, che era il padre di Placido Calevo (1898-1961), personaggio molto noto nella frazione di Romito per essere stato l’operatore del cinema teatro Giuseppe Verdi, inaugurato nel 1927, in un fabbricato poi abbattuto nei primi Anni Novanta per fare spazio alla nuova Coop.

Negli Anni Trenta e Quaranta quel locale era un vanto per il paese: ogni domenica vi veniva proiettato un film, mentre in inverno e in primavera era sede di grandi veglioni, a cui partecipavano anche giovani dei dintorni. Durante il Secondo conflitto mondiale fu requisito dai tedeschi e utilizzato come stalla, perché si trovava a fianco della casermetta. Dopo la guerra tornò a funzionare come cinema, uno dei pochi divertimenti disponibili e, perciò, straordinario punto di ritrovo e aggregazione. Il proprietario era il signor Pino Trefiletti che ricopriva anche il ruolo di cassiere, bi-gliettaio, venditore di caramelle e maschera.

L’operatore cinematografico nel dopoguerra era appunto Placido, nipote di Giuseppe. Placido aveva lavorato come operaio elettricista nelle Ferrovie dello Stato; una volta andato in pensione si dedicò completamente a questa sua passione, ma era noto anche per la sua capacità di aggiustare tutto. La finestra della cabina di proiezione dava su via Gaggiola, per cui sua moglie (Persia  Carro) gli portava la cena con la gamella, poiché all’epoca la proiezione della pellicola era continua, dal- l’apertura alla chiusura e non esisteva la pausa per la cena. Gli dava il cambio il nonno di Roberto Valenti che, all’epoca, era un bambino e stava anche alla cassa: erano i tempi in cui, come resto del costo del biglietto, si davano delle caramelle.

Il cinema era aperto anche il giovedì.

Siccome alla televisione c’era Lascia o Raddoppia, a quei tempi un programma molto visto, alla fine del primo tempo si piazzava un apparecchio televisivo davanti allo schermo, per non far perdere l’amato gioco a quiz agli spettatori; alla fine del programma televisivo, ricominciava il secondo tempo del film. Prima di ogni proiezione, con un giradischi e un piccolo altoparlante messo fuori da una finestra, si metteva anche un po’ di musica.

Come in tanti altri paesi della provincia italiana, piano piano il cinema passò di moda, finché anche a Romito venne chiuso definitivamente e poi demolito.

Anche il fratello minore di “Pipetta” (soprannome di Giuseppe Calevi / o), Luigi, sul finire dell’Ottocento divenne abbastanza popolare non per attitudini cinematografiche, ma per il suo impegno nel volontariato sociale, dal momento che venne nominato Presidente del “Club Operaio del Piano di Romito Magra”, istituito a Romito nel 1883, ancora prima della Società di Mutuo Soccorso “Stella Polare” (creata nel 1898), con lo scopo di provvedere all’istruzione, alla moralità, al soccorso e ai trattenimenti familiari degli iscritti, mediante la creazione di una biblioteca e di conferenze private. Di questa associazione potevano far parte tutti gli onesti e laboriosi cittadini nati e dimorati nel piano di Romito Magra, Cerri e Trebiano.

Si è nominato spesso Giuseppe Calevo, fondatore del-l’omonima ditta, ma chi era e da dove proveniva? Più conosciuto col soprannome Pin o Pipetta, perché fumava sempre la pipa, era nato a Trebiano nel 1856. Tutti i successori di quel Calevo, poi, furono soprannominati Pipetta perché, si sa, nei piccoli paesi ciascuno era dotato di almeno un nomignolo. Nei registri di nascita e battesimo di Trebiano (Romi-to all’epoca apparteneva al Comune di Trebiano), il 31. 01.1856, è annotato l’atto di nascita di Giuseppe Calevi (non Calevo); padrino di battesimo fu lo zio Santo Calevi; madrina la zia Camilla Calevi, di professione lavandaia. Proveniva da una famiglia modesta: era il sesto figlio di Giovanni Antonio, di mestiere contadino, domiciliato a Trebiano e della vivente Maria Apollonia Mozzachiodi di Antonio, detta “la bella Apollonia” per essere stata una donna di straordinaria bellezza; i genitori di Giuseppe si erano sposati sempre a Trebiano, circa nove anni prima (il 29 aprile del 1847), entrambi all’età di 22 anni. Come quasi tutte le coppie dell’epoca ebbero numerosa prole, ma molti dei loro figli non raggiunsero l’età adulta: il primogenito Luigi, nato nel 1848, morì a un anno di età; l’anno successivo venne alla luce Lodovica Francesca; un destino crudele strappò alla giovane coppia anche il terzo figlio, Nicolò, nato e deceduto nel 1850; ebbero la fortuna invece di vivere più a lungo Maria Paola (nata nel 1851), Mattia Cesare (nato nel 1853), Giuseppe (nato nel 1856) che, nel 1888, fonderà l’importante ditta Calevo e Luigi, così chiamato in ricordo del primogenito.

Intorno al 1880, Giuseppe, detto Pipetta, si sposò con Paita Adele (detta Adelina, 1860-1942) (foto a sinistra) anche lei di Trebiano, la cui famiglia sembra avesse un pastificio a Romito. Era una signora benestante, tanto è vero che, fino a qualche anno fa, esisteva una targa con il suo nome su una delle panche della chiesa di Trebiano. Probabilmente anche grazie a questo matrimonio vantaggioso, “Pipetta” poté fondare la ditta e cominciare a costruire le fortune economiche della famiglia; prima di mettersi in proprio, era stato uno dei numerosi mezzadri del conte Picedi. Nel frattempo, aveva già trasformato il cognome di nascita da Calevi a Calevo: probabilmente si trattò di un mero errore anagrafico che però fu avallato all’epoca e definitivamente acquisito dalle generazioni successive.

Giuseppe “Pipetta” e Adelina misero al mondo ben sei figli con i quali proseguire generosamente ad ampliare la dinastia dei Calevo: Mario (n. 1884-1918), Gemma (1887-1961), Silvio (1890-1961), Pilade (1894-1957), Enere (1897-1957) e, infine, Nestore (1900-1975). Ma co-me vedremo, purtroppo, il destino decise diversamente.

Lasciata la mezzadria, inizialmente l’attività di Giuseppe e poi dei figli consisteva nel prendere in appalto i boschi, dove si recavano a tagliare alberi che poi vendevano a quattro famiglie di inglesi, le quali possedevano meravigliose ville vicino a Tellaro; inoltre il legname era distribuito un po’ a tutte le famiglie di Romito, dal momento che, all’epoca tutti quanti cucinavano e si scaldavano con le stufe alimentate a legna.

In quegli anni, poiché la società di Pubblica Assistenza di Romito non disponeva ancora di un carro-lettiga a cavallo, per il trasporto urgente dei malati noleggiava il carro di Giuseppe Calevo che lo metteva prontamente a disposizione.

Avviata positivamente l’at-tività di tagliaboschi, Giuseppe decise di iniziare a commercializzare anche il carbone; per il trasporto si utilizzavano carri e cavalli: esattamente nel sito in cui oggi si trovano gli uffici della storica azienda, nata e sempre rimasta nel paese di Romito, in passato si trovava il fienile e, sotto gli attuali uffici direzionali erano situate le stalle; lo stalliere aveva il curioso nome di Frulla.

Grazie a queste fortunate scelte imprenditoriali, la ditta Calevo iniziò ad ingrandirsi ed ottenne, in seguito, anche l’esclusiva della fornitura di legname alla fonderia di Pertusola.

Nel 1906 Giuseppe, ormai benestante, si accordò con i suoi fratelli, per passare un tanto da vivere ai loro anziani genitori: Giuseppe e Cesare Mattia si impegnavano a versare otto lire mensili, mentre Luigi avrebbe corrisposto solo quattro lire al mese, dato che aveva lasciato al padre la sua casa e un terreno da sfruttare.

La famiglia di Giuseppe abitava in un caseggiato modesto, in fondo all’area industriale, e possedeva solo il piccolo capannone iniziale (dove attualmente si trova il Brico), nel quale veniva tagliata la legna. Silvio, nipote di Giuseppe, ricorda, da bambino, che in quel capannone assisteva con curiosità alle operazioni di taglio del legname: c’erano un carrello, su cui venivano caricati i tronchi, e una sega a nastro con una manovella; i tronchi venivano imbragati, poi la rotellina girava e ne uscivano le tavole.

I discendenti di Pin si divisero già prima della scomparsa del padre: Nestore, Enere e Gemma rimasero sempre a Romito, mentre gli altri tre fratelli (Mario, Silvio e Pilade) si trasferirono a Pitelli, dove si procurarono delle diligenze e presero in appalto il servizio della posta.

Finita la guerra, i fratelli Silvio e Pilade acquistarono due corriere a Livorno dagli Americani e misero su il servizio di Corriere Calevo, fino agli anni 1947-1948; la società poi venne trasformata in Autolinee Sas.

Nel 1924, Giuseppe Calevo, vendendo legna da ardere, dichiarava un reddito di ricchezza mobile di duemila lire (al netto della contribuzione), mentre suo figlio Silvio, grazie all’impresa di trasporti, possedeva un reddito lordo pari a lire millequattrocento. Tanto per avere un’idea dell’entità del guadagno, in rapporto ad altre aziende della medesima zona, bisogna dire che anche il panificio di Luigi Agostinelli fruttava una rendita pari a duemila lire (lorde); l’osteria di Angela Cresci produceva un reddito annuo di mille quattrocento lire, mentre la cava da pietra di Achille De Biasi e altri, assicurava  già all’epoca una rendita netta assai più alta, pari a 50.000 lire all’anno.

Conosciamo meglio la dinastia dei Calevo, grazie ai ricordi di Silvio Bernieri, nipote di Giuseppe.

Il primogenito di Pipetta, Mario, nato nel 1883, aveva sposato Linda Maggiani di Pitelli; purtroppo se ne andò a soli 35 anni a causa dell’epidemia di spagnola (1918). Dal matrimonio di Mario e Linda era nato un unico figlio che però morì ad un anno di età. Linda amava moltissimo girare in calesse e non abbandonò l’abitudine di utilizzare quel mezzo anche quando era incinta, e per questo a Romito veniva guardata con curiosità e si vociferava che avesse avuto dei problemi durante il parto, proprio a causa di questa sua passione per il calesse.

L’unica figlia femmina di Giuseppe e Adele, Gemma (1887-1961), ebbe a sua volta due figlie: Miriam Vanda (1915-2002) e Lida; Vanda si sposò con Stefano Vannucci (1909-1973) e diventò molto conosciuta nel paese, in quanto maestra; sua sorella Lida, professoressa, si unì in matrimonio con Adriano Rolla (1915-1993), e poi si trasferì a vivere a Livorno. Carlo Bertolani raccontava di questa sua zia acquisita, Gemma Calevo, che aveva sposato un fratello di sua madre (Guido Olina, 1887-1976) e di quando lui, ancora bambino, era obbligato da sua madre ad andarla a trovare; Gemma sosteneva di avere la “piumo-nite” (polmonite) perciò, in inverno, rimaneva sempre a letto. Suo marito Guido, che lavorava a S. Bartolomeo (o forse in Arsenale), prima di uscire di casa le preparava il pranzo, svuotava il vaso da notte, badava a galline e conigli, curava l’orto.

A mezzogiorno Vanda doveva lasciare il lavoro a scuola e tornare a casa dalla madre per aiutarla a pranzare, perché lei dal letto si alzava solo d’estate.

Gemma e la sua famiglia abitavano nella casa proprio di fronte all’azienda. Poi si trasferirono nella casetta gialla davanti all’ingresso di via Calesana e, infine, costruirono una casa più in fondo a Romito (più o meno di fronte alla casermetta), a piano terra della quale viveva Giovanni Fontana e, sopra, la loro figlia, la famosa maestra Vanda.

Il terzo figlio di Giuseppe, Silvio, contrasse matrimonio con Renata Pisi di Reggio Emilia. Da questa unione vennero alla luce due figli: Claudia e Mario, che però morì bambino all’età di circa sette anni. Claudia, a sua volta, si sposò con Plinio Bertieri e dalla loro unione sono nati due figli: Silvio (come il nonno materno), e Betti, per la chiesa Elisabetta, dato che una santa Betti non esiste. Plinio proveniva da una famiglia di Romito: suo zio, Aristide Bertieri, aveva fondato la Cooperativa Stella Polare di Romito, di impostazione socialista, tanto è vero che, durante il governo fascista, la cooperativa cambiò nome e gestione e lo stesso Aristide fu costretto a fuggire a Marsiglia.

A proposito della sua famiglia, Silvio rivela un particolare molto interessante: il loro vero cognome era Fontana, non Bertieri: il suo bisnonno era parente di Demido Fontana; prima della guerra, si era accompagnato, ma non sposato con una Bertieri; quando scoppiò il primo conflitto mondiale, quell’uomo non voleva che suo figlio venisse mandato a farsi uccidere in combattimento, perciò fece in modo da cambiargli il cognome e mettergli quello di sua madre che, effettivamente, risultava non sposata. Diventando quindi un figlio unico di madre sola, il ragazzo doveva provvedere al mantenimento della donna e perciò non poteva essere arruolato. Anche per quanto riguarda il ramo di Silvio, quindi, il cognome Calevo non venne tramandato.

Durante la Prima Guerra, Pilade, quarto figlio di Pipetta, poco più che ventenne, aveva avuto problemi seri perché, quando avvenne lo sfondamento di Caporetto, si era spaventato al punto da darsi alla fuga e ritornare a casa, diventando a tutti gli effetti un disertore. Quando i Carabinieri vennero a cercarlo per arrestarlo, scappò e si nascose al Cucco, vicino a monti S. Lorenzo, in una casetta della famiglia che poi verrà utilizzata dai Calevo anche durante la Seconda Guerra, perché vi era stato costruito un rifugio.

Suo padre, allora, chiese aiuto a un personaggio importante e la faccenda venne chiusa lì, altrimenti Pilade avrebbe dovuto essere fucilato come disertore. Però gli rimase sempre questo trauma della guerra: era diventato collerico e molto rissoso. Dopo la morte di suo fratello Mario, la vedova si risposò con il giovane cognato Pilade; da queste seconde nozze, tuttavia, non vennero alla luce eredi.              

Il penultimo figlio di Giuseppe, Enere (1897-1957), invece, si accompagnò con Annunziata (Alice) Falcinelli (1901-1981), una donna piccolina, figlia di Giuseppe e Mira Paita; Alice era sorella di Ostilio; una figlia di Ostilio, battezzata Mira come la nonna, è la moglie dell’ammiraglio Roberto Liberi. Appassionato di ricerche storiche, l’ammiraglio ha svolto accurate indagini genealogiche presso l’archivio parrocchiale di Trebiano, facendo risalire le origini della famiglia Calevi/o, almeno fino al 1700.

Enere e i fratelli si recavano a tagliare alberi nei boschi della Rocchetta e di Zanego: al mattino si abbattevano i tronchi e al pomeriggio, col segone, si tagliavano i pezzi più grossi e si sistemavano sulle spalle. Ad aiutare i tagliaboschi nel trasporto, c’erano quattro o cinque ragazze di Tellaro che, per cinque lire al giorno, si caricavano le fascine sulla testa e le trasportavano a valle ed Enere si divertiva a stuzzicare quelle giovani lavoranti; alla sera, poi, arrivava Gigi de Bocco coi cavalli e caricava tutto il legname rimasto sul suo carro.

Quando Enere cessò di vivere, nel 1957, l’allora parroco di Romito, don Ambrosini, dichiarò che il funerale in chiesa non si poteva celebrare, perché Enere e Alice non si erano sposati con rito cattolico. Allora intervenne la cognata del defunto, Ida, donna molto devota, la quale gli fece notare che la famiglia Calevo si era dimostrata molto generosa donando il pavimento, il cemento e la calce per la costruzione della parrocchia e perciò, il sacerdote non avrebbe dovuto farle un torto del genere: don Amedeo, allora, ci ripensò e acconsentì a celebrare il funerale in chiesa.

Questa azienda, oltre che nei confronti della chiesa, si dimostrò molto generosa almeno in un’altra occasione: quando vi fu il terremoto in Irpinia, negli Anni Ottanta, la ditta mandò a proprie spese due camion carichi di materiale per la ricostruzione.

Sempre per quanto riguarda la continuazione del cognome Calevo, bisogna ricordare che neppure Enere e Alice ebbero discendenti.

L’ultimo figlio di Giuseppe e Adelina, Nestore, prese in moglie Ida Rossi di Crespiano, piccola frazione di Comano. Da lei ebbe un unico figlio, Piero Giuseppe (Giu-seppe come il nonno), detto Pipino, coniugato con Sandra Podestà (foto sopra) di Brescia,dalla cui unione sono stati generati due figli: Andrea (il cui vero nome è Andrea Giuseppe, sempre in omaggio al bisnonno), l’attuale titolare dell’azienda, e Laura.

Ottimo commerciante e dotato di un innato senso degli affari, Piero Giuseppe è scomparso prematuramente nel 1997 a soli sessant’anni; in seguito a questo lutto, dapprima l’azienda è stata guidata da sua moglie Sandra, insieme alla figlia Laura, in attesa che il piccolo Andrea crescesse. Andrea Calevo, che oggi ha preso le redini della società, rappresenta la quarta generazione che gestisce l’azienda di famiglia ed è, attualmente, l’u-nico discendente maschio.

Le aziende dei figli di Pipetta ebbero molti problemi durante e dopo il Fascismo, perché i Calevo erano anarchici: non a caso, Silvio e An-drea hanno ancora in casa tutti i libretti di Pietro Gori.

Bisognava avere molto coraggio per restare anarchici durante il regime, visto che si rischiava, come minimo, di non poter più lavorare. E infatti, una mattina, i fascisti di Romito si presentarono in magazzino per chiudere i cancelli della ditta. Quando arrivarono le camice nere, l’unico rimasto in azienda era Nestore, che all’epoca era un ragazzo, mentre i fratelli erano tutti a lavorare nei boschi. Allora li mandarono a chiamare e loro vennero giù immediatamente.

C’erano Silvio, Pilade, Enere e altri due boscaioli, loro aiutanti. Per descrivere meglio la situazione, bisogna essere informati di alcuni retroscena e dettagli:  Silvio era alto 1 metro e 95 cm e aveva talmente tanta forza fisica che, quando costruì la casa di Pitelli, si caricava  sotto ciascun braccio un sacco di cemento da 50 chili;  suo fratello Pilade era alto 1.85 e, come si è raccontato, avendo subito il trauma delle violenze di guerra, era molto rissoso e facile al litigio. Anche il terzo fratello, Enere, era un omone molto forte, più o meno di quell’altezza. Poi c’erano i due boscaioli.

Possiamo immaginarli, costretti a interrompere il lavoro, arrivare tutti e cinque a cavallo, piuttosto arrabbiati, con i frustini che venivano realizzati coi budelli degli animali. I fascisti, che erano facinorosi ma non robusti, quando se li videro comparire davanti, rinunciarono ai loro propositi e minacciarono: “Per questa volta non vi facciamo chiudere! Però…” Però l’azienda non venne mai chiusa.

Terminata la guerra, vennero i partigiani a cercare i Calevo, ma loro rimasero anarchici e, perciò, malvisti anche dal partito comunista. Quando Silvio (nonno del-l’intervistato) effettuava il servizio di trasporto con le corriere collegando Pitelli, Arcola, Termo, Baccano, Muggiano e La Spezia, i comunisti, con una scusa, un giorno gli fermarono i mezzi e non volevano più farlo lavorare. Dato che con le buone la situazione non si risolveva, suo fratello Pilade diede un sacco di botte a un tizio e, da quella volta, nessuno venne più a disturbarli.

I fratelli Calevo erano molto legati e, per tradizione, in occasione della ricorrenza del 25 aprile si ritrovavano a passare una piacevole giornata a Canarbino, dove c’era una trattoria che si chiamava Da Cucchi e offriva stuzzicanti panini con le acciughe, da accompagnare con abbondanti bevute di buon vino. Altra escursione abituale del clan dei Calevo era quella di ottobre, per la fiera di S. Felice a S. Stefano Magra; Silvio partiva da Pitelli con la corriera piccola, da 26 posti, veniva a Romito, caricava tutti i fratelli e, insieme, andavano a vedere i cavalli da comprare e a farsi un giro alla fiera.  

Le precedenti puntate della storia sono state pubblicate nel mese di settembre, ottobre, novembre, dicembre 2020

La ditta del ramo dei Calevo di Romito aveva già iniziato a trasformarsi prima della guerra: il passaggio successivo alla lavorazione e commercio di legname e carbone fu l’ingresso nel mercato dei laterizi, nel 1930, con l’acquisizione di una fornace. La svolta definitiva, tuttavia, avvenne negli anni 1939-1940, quando Nestore era già subentrato al padre (che infatti morì nel 1932) nella conduzione dell’azienda di famiglia (la licenza commerciale del 1939, per legna da ardere, risulta infatti rilasciata a nome di Nestore). Dopo la morte di Giuseppe, l’impresa venne portata avanti dai figli Enere e Nestore, mentre l’attività contabile era tenuta da Ida Rossi, la consorte di Nestore, perché era maestra.

Ida era una donna dal carattere molto deciso che, perciò, contribuì in maniera considerevole alla crescita dell’attività. Ricorda Silvio che, un giorno, un cliente abituale caricò la macchina di materiali e poi Nestore lo stava facendo andar via senza che pagasse subito, rassicurandolo con il detto: “Per pagare e morire c’è sempre tempo!” Sentito il marito sentenziare in quel modo, Ida uscì dal magazzino e fece lasciare lì tutta la merce al malcapitato, sostenendo che non vi era poi tutto quel tempo e sarebbe stato meglio pagare subito. Anche dopo essere andata in pensione, Ida continuò a frequentare assiduamente e tenere sotto controllo l’azienda di famiglia, che aveva amministrato con tanta abnegazione e accortezza per molti anni.

Essendo l’unico magazzino edile della zona, la ditta “Fratelli Calevo” continuò a espandersi nel dopoguerra, quando in Italia avvenne il boom della ricostruzione edilizia: chiunque nei paraggi volesse costruire un manufatto, prima o poi aveva bisogno di comprare il materiale da Pipetta e figli. Il primo camion della ditta venne comprato a Livorno, dagli Americani: dopo la fine della guerra, difatti, l’esercito americano non aveva interesse a riportare in patria tutti i mezzi utilizzati, perciò molti vennero svenduti e lasciati in Italia.

Enere e Nestore compravano il cemento in una cementificio di Pontremoli: il cemento arrivava col treno alla stazione di Arcola; i fratelli Calevo col camion si recavano a caricare i sacchi di 50 chili a mano; poi li portavano in magazzino e li scaricavano di nuovo, a uno a uno, tutto sempre a mano.

I mattoni pieni li andavano a comprare in una fornace di Villafranca; anche questi venivano caricati e scaricati dal camion a mano. A Sarzana, invece, si recavano dalla ditta “Fornaci Saudino RDB” ad acquistare i solai. Per i mattoni forati, infine, i Calevo si rifornivano alle fornaci Filippi di Castelnuovo Magra. Dalle fornaci dei De Biasi di Romito acquistavano grassello, arenino e calce.

In questi anni del dopoguerra, dietro la spinta della ricostruzione, si decise di affiancare alla redditizia attività di vendita anche la produzione in proprio di prefabbricati: i primi furono i solai in laterizio. Silvio agli inizi degli Anni ‘50, all’età di quattro o cinque anni, ricorda che vedeva spesso Piero Calevo, col primo autista della ditta, che fu Agostino Ravenna, mentre scaricava forati da un camion, a mano, senza l’ausilio di pancali, gru o muletti. Fu proprio Piero, molti anni dopo, a comprare il primo muletto della ditta che funzionava a gas. Ma in quegli anni, i Calevo conducevano una vita tremenda e faticosa, tagliando alberi, trasportando pesi smodati, compiendo sforzi continui ed eccessivi. Da un lato questi enormi sacrifici vennero premiati con un eccezionale successo commerciale, ma dall’altro, i discendenti di Pin pagarono con la loro stessa salute un tale dispendio di energie e, infatti, morirono tutti piuttosto giovani, anche perché avevano una disfunzione alle coronarie: Pilade ed Enere spirarono a sessant’anni a causa di infarto; anche Nestore mancò all’improvviso, sempre per un infarto, a 75 anni; la stessa Claudia Calevo (figlia di Silvio), cessò di vivere per lo stesso motivo; nel 1997, anche Piero è scomparso prematuramente per via di un problema cardiaco; solo Silvio (foto sopra), nonno dell’in-tervistato, non spirò a causa di una malattia del muscolo cardiaco ma si spense in conseguenza di un tumore.

Almeno due gli anni chiave per la storia di questa azienda: il 1964, quando nello stabilimento di Arcola si cominciò a vendere la calce di proprietà della famiglia e il 1974, quando il ramo produttivo dell’azienda fu scisso da quello commerciale.

Nel decennio 1960-1970, l’impresa si affacciò anche al settore della vendita di ceramica per pavimenti e rivestimenti, bagni, idraulica e riscaldamenti. Negli Anni Ottanta e Novanta nacquero il nuovo stabilimento per la produzione di lastre e manufatti in cemento e lo stabilimento per la lavorazione del ferro sagomato per cemento armato, grazie all’utilizzo di sofisticati macchinari computerizzati; inoltre l’azienda acquisì anche l’impresa STALT (in società con Enzo Giannetto), per la costruzione di strade ed autostrade e la ditta EDILBETON, per la produzione di calcestruzzo.

Attualmente questa storica società che, nel corso di quattro generazioni, seppe diversificare e rendere solide le proprie attività, mantenendosi al passo coi tempi, senza interruzioni e offrendo lavoro a parecchie maestranze, è una delle più importanti del Levante ligure, formata da un gruppo di quattro aziende che rappresentano un punto di riferimento per l’intera regione. E che la famiglia abbia scelto di mantenere questo colosso nell’origi-naria vecchia sede di Romito Magra, anche se opportunamente ingrandita e modernizzata, è un segnale di affetto che ci rende particolarmente fieri.            

Luciana Piazzi