La grotta Byron a Porto Venere

(Secondo articolo di prima pagina di Lerici In di settembre 2020)

I cuginetti che ci guardano dall’altra sponda del Golfo ci rimarranno male a sentire che Byron non vide mai Portovenere ma, purtroppo, è così. A volte, forse troppo spesso, capita di ricostruire il passato usando le fole che si sentono e da cui nessun luogo è immune, ma la parola storia è sinonimo di fonti e solo sulla loro base si può riportare alla luce quello che fu.

Sotto San Pietro a Portovenere, sta la grotta una volta Arpaia ed oggi soprattutto Byron per via di una lapide bilingue che è murata al suo ingresso. Il testo malandrino afferma che il Lord trasse ispirazione dal luogo per la descrizione della caverna del Corsaro, il suo celebre poemetto, e che George, daring swimmer, nuotatore audace, nel borgo d’occidente s’immergeva per raggiungere la sponda opposta. In effetti, Byron fu grande nuotatore di cui tutti ricordavano la traversata dei Dardanelli per ripetere l’impresa di Leandro che innamorato di Era che stava sulla riva opposta, ogni notte sfidava le onde per raggiungerla.

Così, per quella targa incassata nel 1877, sorse la leggenda di Byron a Portovenere, ma la cosa non piacque a quelli che conoscevano la biografia del poeta inglese. A fare per bene le pulci alla storia fu Ubaldo Mazzini in un libretto del 1899. Lì, ricordando che Byron venne in Italia nel 1816 dopo avere pubblicato la vicenda dei due innamorati nel ’13 e Il Corsaro l’anno successivo, smonta le affermazioni della lapide. Ma va ancora avanti.

Dopo un lungo soggiorno a Venezia e Ravenna, Sua Signoria si ferma a Pisa alla fine del ’21. Shelley affitta Casa Magni il 1 maggio del ’22 ma i due, che fra l’altro non intessono rapporti più tanto cordiali, non s’incontrano. Da Pisa Byron rivede Percy quando ne brucia le spoglie a Viareggio, arrivato in carrozza sulla spiaggia della Versilia da cui riparte con la sua nave raggiunta alla fonda alcune miglia più in là con qualche energica bracciata.

Quindi, è categorico l’Ubaldo, non andò a San Terenzo a salutare Mary ma se ne tornò alla Torre pendente. Da lì, alla fine del ‘22 parte per la villa affittata ad Albaro. Non esistendo ancora una carrozzabile per Genova, si deve imbarcare a Lerici. Ma sta male, è febbricitante, reumatismi e bile lo tormentano fino a quando un poderoso clistere non sistema tutto. Ma passa quattro giorni d’inferno confinato, dice lui, nel peggior letto della peggiore locanda di Lerici. In tali condizioni, conclude Mazzini, è impossibile che abbia potuto buttarsi in acqua sull’altra riva e quella fu la sua unica volta nel nostro borgo.

Così Mazzini ricostruisce il tutto con argomentazioni che paiono davvero comprovate. L’unica nota discordante è l’affermazione per cui Byron, distrutto dal dolore per la scena che s’apprestava a vedere, si buttò in mare prima che si appiccasse il fuoco alla pira funebre di Shelley: Thomas Medwin, cugino di Percy e suo biografo, scrive, infatti, che il Lord seguì tutto il funerale prima del tuffo.

Ma è una quisquiglia per quello che interessa a noi che soltanto ci chiediamo perché sia nata quella storia. A me la spiegazione sembra facile: per una terra come la nostra che non ha una sua epica, tutto fa brodo per costruire una saga che in qualche misura la nobiliti.

Alberto Scaramuccia

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