Maria Luisa Eguez, scrittrice di libri prevalentemente di carattere religioso per le ed. Paoline e “Il Messaggero” di Padova, ci parla della terza enciclica di Papa Francesco promulgata il 4 ottobre 2020.
Papa Francesco con la sua Omnes Frates ha lanciato l’ennesima bomba.
Il Vangelo infatti non è una lettura che concilia sonni tranquilli. Gesù stesso, del resto, già duemila anni fa aveva avvertito: «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14, 7); e poi: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8). Come a dire che la giustizia sociale – umanamente parlando – è un’utopia e allora il Maestro rilancia oggi a noi la sfida sul piano religioso, dal momento che il Messia non è ancora tornato nella sua gloria (At 1, 11).
Lo stesso fa il suo vicario in questi travagliati tempi: il fallimento delle ideologie totalitarie d’ogni colore, la piaga del capitalismo, il decadimento dovuto al paganesimo imperante, il degrado della qualità della vita e i disastri ecologici sono sotto gli occhi di tutti, anche quelli più socchiusi. Il Vangelo è una “bella notizia” sì ma è estremamente scomodo, perché va controcorrente rispetto al quieto vivere a cui tutti, sotto sotto, aspiriamo.
Papa Francesco prende le mosse dal Santo di Assisi: «Guardiamo, fratelli tutti, il buon pastore che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce» (Ammonizioni 6, 1; FF 155). C’è stato chi, appena letto il titolo dell’enciclica e senza ancora conoscerne il contenuto, si è lanciato in una campagna di protesta perché si parlava di “fratelli” senza citare “sorelle”. Una polemica sterile che si commenta da sé, in quanto il termine “fratelli” è chiaramente, nel contesto, onnicomprensivo e non si può certo tacciare l’attuale pontefice di misoginia.
Al cuore di questa enciclica c’è l’urgenza di una vera e propria metànoia (cambiamento di mentalità, nel greco del Nuovo Testamento), per cui vi si dice di san Francesco: «Ha ascoltato la voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita» (FT n. 48).
In una cultura globale che mette in modo parassitario al centro di ogni scelta il benessere individuale o di gruppo (che sostanzialmente è la stessa cosa), il benessere dell’oggi a scapito di quello del domani, il pontefice cita l’affermazione del regista del film Papa Francesco. Un uomo di parola, Win Wenders, che asserisce: «Le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità” (FT n. 203). Peccato che le differenze, proprio per la loro tensione creativa innata, destabilizzino. C’è anche quindi la miopia di una reazione psicologica, che nel cambiamento vede scatenarsi la paura della perdita di identità, il danneggiamento dei propri interessi, l’incertezza di un avvenire ancora tutto da costruire. Ma è vero anche l’esatto contrario: l’immobilismo, l’autoreferenzialità, la chiusura in se stessi sono i sintomi di una morte progressiva per ogni civiltà.
Osserva papa Francesco: «In Argentina, la forte immigrazione italiana ha segnato la cultura della società, e nello stile culturale di Buenos Aires si nota molto la presenza di circa duecentomila ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere» (FT n. 135). Arriviamo così a due paradossi. Noi italiani, per esempio, siamo orgogliosi del contributo dato ad altri Paesi europei ed extraeuropei dalla nostra emigrazione degli ultimi due secoli, ma facciamo fatica ad accettare in patria il contributo che individui di altri Paesi possono darci in termini di forza lavoro e arricchimento intellettuale. A livello mondiale abbiamo accettato quasi tutti l’omologazione culturale del “villaggio globale” (che poi in realtà è semplicemente “mercato globale” a tutti i livelli, nella più bieca logica consumista) ma dopo ci barrichiamo in «visioni individualistiche» che ci fanno correre «il rischio di vivere proteggendoci gli uni dagli altri, vedendo gli altri come concorrenti o nemici pericolosi» (FT n. 152).
Citando la parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37), il papa sottolinea come sia «necessario far crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente, per aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che soffrono e muoiono nei Paesi poveri» (FT n. 165).
La cura “samaritana” dunque, per papa Francesco, consiste in approcci a vari livelli, questi sì che propriamente possiamo definire onnicomprensivi: «L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici» (FT n. 167).
Maria Luisa Eguez