Dall’Istituto alberghiero ai grandi transatlantici
(da Lerici In di maggio 2018)
Chi è interessato alla storia lericina, i suoi personaggi, la sua cultura, la sua cucina, non può e non deve farsi sfuggire l’ultimo libro dato alla stampa e curato da Armando Baldassari ed Enrico Calzolari, “Quel bianco alto cappello”, Edizioni Cinque Terre.
Il libro, tra le tante cose, vuole ricordare gli ottanta anni dalla fondazione della prima scuola alberghiera a Lerici, avvenuta nel lontano 1938, e i cinquanta dell’Istituto Professionale Alberghiero “Casini” istituito nel 1968, in cui gli autori sono stati docenti.
Tra le pagine, si scopre l’epopea di quei lericini arrivati all’apice della carriera nelle brigate di cucina dei transatlantici, sia con livrea nera, diretti verso le rotte del Nord America, sia con livrea bianca, verso le rotte del Sud America, per meglio sopportare le temperature equatoriali.
Storie di uomini che nella loro arte hanno ricercato la perfezione, come Francesco Biso, veri maestri sia nella preparazione dei piatti, sia nel loro confezionamento e presentazione. Artisti della cucina stimati ed apprezzati da quella clientela internazionale di elevate condizioni sociali a tal punto da far conoscere, nel breve tempo di un viaggio per mare, Lerici e la sua cultura culinaria, quando ancora la tecnologia era lontana dai moderni sistemi di comunicazione e l’informazione arrivava, in primis, con gli esempi diretti, con il parlarne e, nel caso specifico della cucina, con il gustarne i sapori.
Nel libro una carrellata di nomi, di immagini, di notizie che fotografano Lerici in un periodo tra i migliori della sua storia economica.
In “Quel bianco alto cappello” non c’è solo questo, ma com’era già stato per “La cucina del Golfo nella tradizione mediterranea”, dato alla stampa nel 1993 nell’ambito delle attività didattiche dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione “Giuseppe Casini”, curato dai medesimi autori, si ritrova lo stesso spirito del “Progetto 92”, finalizzato a “..costituire il necessario supporto ad ogni espressione creativa che unisce il mestiere all’arte e alla cultura”.
Inoltre, vi troviamo pagine supplementari dedicate alla ricerca delle tradizioni gastronomiche e ai profumi delle erbe del territorio del Caprione, nonché all’aggiunta di ricette fatte entrare nelle moderne navi da crociera dal cuoco e maestro di casa e poi dirigente di catena in compagnie internazionali di navigazione, il lericino Aldo Marchi.
Parlando della gastronomia delle grandi navi, si completa a tutto tondo il contenuto del volume con l’intervista al comandante di una di queste Giorgio Pagano. “Quel bianco alto cappello” è stato presentato lo scorso 22 aprile nella cornice del castello di Ameglia in occasione del “Festival del benessere” indetto dall’Associazione “Il tocco dell’Anima”; a Lerici, la data della presentazione è ancora da stabilirsi.
Gino Cabano
(da Lerici In di ottobre 2018 e seguenti)
Nel mese di maggio 2018 abbiamo presentato una recensione del libro “Quel bianco alto cappello” di Armando Baldassari ed Enrico Calzolari e ci eravamo proposti di approfondire la figura del lericino Francesco Biso, uno dei massimi “Chef de cuisine” di tutti tempi. In questo ci è venuto incontro l’ammiraglio Luigi Romani che ha messo a nostra disposizione un suo articolo pubblicato nel maggio 1986 su “Il Golfo dei Poeti”, sempre attuale, scritto in occasione del centenario della nascita del grande Chef.
In quella Lerici tranquilla, anticotta, forse un po’ monotona, ripetitiva, nacque, appunto cent’anni fa (1886 ndr), Francesco Biso che doveva passare alla storia fra i personaggi del Golfo, non solo per essere stato uno dei pochissimi «Chef de cuisine» (per dirla col linguaggio dell’epoca), anzi uno dei pochi maestri in questo difficile e delicato campo, ma anche, per i motivi che vedremo, «Il re dei cuochi amico degli artisti». Ma procediamo con ordine. Intanto ancora una volta chiedo aiuto a Shakespeare per condensare «i fatti di molti anni in un volger di clessidra».
Sul finire del secolo (e per molti anni a venire) i figli, ancora bambini, erano spinti ad imparare un mestiere e così anche il fragile Biso, appena tredicenne, venne imbarcato come mozzo sul P/fo Rapido che trasportava merci varie fra Lerici e Genova. Ma fu un’esperienza di pochi mesi perché presto prese imbarco su di un piroscafo che attraversava l’Atlantico e cominciò, fra le pieghe dei discorsi di bordo, più che a intravedere, a immaginare gli Stati Uniti in tutta l’attrazione che sprigionava da quel paese enorme, ricco, futuribile e, ben a rigore si potrebbe dire, favoloso.
Cosi, come già altri avevano fatto e più ancora faranno, diserta all’Avana, attratto da quel miraggio. Dopo breve vagabondare nell’isola di Cuba, trova imbarco su una nave diretta a Pensacola, in Florida, da dove, viaggiando clandestinamente in ferrovia, raggiunge la mitica New York.
Non era difficile, allora, inserirsi nel lavoro di quella terra promessa che aveva solo bisogno di tante braccia per offrire in cambio guadagni adeguati che non si sarebbero potuti realizzare nel giovane Regno d’Italia afflitto allora da difficoltà d’ogni genere, ma soprattutto da una persistente e dilagante disoccupazione. Infatti il giovanissimo Francesco trova lavoro in un piccolo ristorante, ma non tarda a reperire un posto più consono alle sue aspirazioni facendosi assumere in qualità di garzone di cucina nel famoso albergo ristorante “Knickerbocker”, uno dei più prestigiosi della metropoli, alle dipendenze di uno «chef» francese.
Positivo che il Biso aveva, fin da allora, idee molto chiare sul mestiere che avrebbe esercitato: infatti non disdegna di lavare piatti e pentole per procurarsi un primo gruzzolo indispensabile ai suoi progetti, ma, appena può, passa a pelar patate e a lavare verdura e apprende rapidamente i primi elementi e a poco a poco i segreti dell’arte culinaria.
Mentre possiamo immaginare l’ansia e le preoccupazioni dei genitori, e soprattutto della madre, che non aveva più visto tornare i1 ragazzo, ecco che il casuale incontro di Francesco con Pagano “da Marteletta” fa rinascere le speranze dei genitori per un ritorno del figlio a Lerici.
Infatti la madre del Pagano, al rientro del figlio in Italia, può recare fresche notizie all’amica Giulia Veppo, madre del Biso, sulle ottime condizioni di salute del ragazzo e sul suo consolidato lavoro nel famoso albergo.
Ma le migliaia di miglia che dividono Lerici dall’America sono troppe per la povera madre che dà al Pagano sei sterline d’oro per Francesco affinché rientri senza indugio in Italia per rivedere una sorella gravemente ammalata e togliere così alla fa-miglia il pensiero di saperlo solo a «Neve Iorche».
Quando il Pagano andò a prelevare il Biso, lo «chef» francese che ne aveva altamente apprezzato il non comune talento nel gestire una cucina di lusso, gli disse: «Peccato che questo giovane (aveva solo 17 anni) non possa restare, perché un giorno mi avrebbe sostituito».
Mi rendo conto che raccontare oggi storie patetiche come questa, potrà sembrare, specialmente a una gioventù smaliziata, quale è per lo più quella odierna, ma tanto spesso chiusa a ogni più piccolo senso di avventura, piuttosto ingenuo.
Il De Amicis aveva già scritto «Dagli Appennini alle Ande» (proprio cento anni fa) e, «Sull’Oceano», un romanzo che aveva per tema la navigazione transatlantica e l’emigrazione, e su questi argomenti toccanti tante lacrime erano state versate e continuavano a scorrere. Ma quanto più si scava nei fatti dell’epoca tanto più si scopre che la realtà è più fantasiosa della stessa fantasia.
Il richiamo del mare è per il Biso più forte di qualsiasi attrattiva terrestre perché infatti sul mare prosegue la sua vita sia mercantile sia militare.
Vestirà infatti poco dopo la divisa della Regia Marina per diventare Marò cuoco sulla Regia Nave Miseno prima e presso la famiglia di un Ammiraglio, a Roma, dopo.
Trascorsi intanto g1i anni della Grande Guerra. comincia il periodo prestigioso degli imbarchi più qualificanti di navi mercantili. (segue)
Luigi Romani
(da Lerici In di novembre 2018)
Francesco Biso, chiamato dalla Società Sitmar a curare l’allestimento del nuovo, lussuoso Esperia, dovrebbe naturalmente prendervi imbarco quale «chef», ma, essendo state programmate dalla Società armatrice brevissime soste della nave a Genova, per non essere costretto a trasferirvi la famiglia (nel frattempo si era sposato e aveva già due figli) e quindi abbandonare la sua terra nativa, ottiene di scambiare il posto con un suo carissimo amico e collega e s’imbarca sul transatlantico Principessa Mafalda operante sulla rotta Genova-Buenos Aires. È per il Biso uno degli imbarchi di maggiore soddisfazione, anche perché la clientela sudamericana, più sensibile alla buona cucina di quanto non sia quella statunitense o canadese, gli permette di sbizzarrirsi nei più svariati piatti di portata e di averne continuamente attestazioni di stima ed elogi sperticati.
Nell’ottobre del 1927, dopo oltre sette anni di imbarco sul Mafalda, la Società armatrice, la «Navigazione Generale Italiana», gli chiede di sbarcare per destinarlo a capo delle cucine del piroscafo Duilio, sulla linea Genova-New York, e ridare così prestigio al servizio culinario di classe. Non è superfluo ricordare che il Duilio, col Giulio Cesare, costituiva allora la coppia di transatlantici più lussuosa che batteva la nostra bandiera, all’altezza delle più prestigiose navi straniere. Lo sbarco dal Mafalda valse probabilmente a salvare la vita del Biso perché poco dopo la bella nave affondava al largo delle coste brasiliane.
L’esperienza del Duilio non lo distoglie dalle rotte del Sud, e rinuncia ai più prestigiosi transatlantici diretti al Nord America, quali iI Conte di Savoia e il Rex, pur di tornare alla clientela latino-americana. Cosi Biso passa nel ‘34 sul Conte Grande e nel ‘36 sulla M/n Augustus dove all’inizio del 1940 conclude la sua carriera, assieme al comandante lericino Pellegrino Sturlese, all’inizio del 1940 per il disarmo della nave in vista dell’entrata in guerra dell’Italia.
Per avere un’idea di quanta influenza sulla vita di bordo e sull’umore dei passeggeri avesse nella prima metà del secolo la buona cucina, è necessario ricordare la lentezza delle traversate e quindi la lunga permanenza a bordo di gente che si abbandonava a tutto ciò che la nave offriva di bello e di ricreante: le giornate che trascorrevano piacevolmente pigre e distensive, in un clima di elegante vita mondana e di arrendevole noia, in attesa del consommé dopo una corroborante nuotata in piscina prima della seconda colazione che trapelava svariatissima in un elenco interminabile di piatti, uno più promettente dell’altro, dagli eleganti menu stampati a bordo. Il riposo pomeridiano, che specialmente nelle placide traversate del Sud Atlantico era particolarmente rilassante, preludeva al thè delle cinque col quale si profilavano i giochi di ponte, il bridge ai tavoli verdi, il cinema pomeridiano, il tiro al piattello, il concertino, prima di sedersi nuovamente a tavola per il pranzo.
Il ballo era quasi sempre il coronamento serale a una giornata la cui unica preoccupazione era per le signore la linea che si modificava e per gli uomini, almeno per i più impegnati nel lavoro, quella di non poter seguire da vicino i propri affari. Ma la serie dei pranzi non era ancora terminata perché a mezzanotte un buffet freddo allietava gli stanchi maratoneti della danza che persistevano fino alle piccole ore mattinali. In tali condizioni di vita la qualità e la varietà dei cibi a disposizione delle volubile clientela aveva importanza decisiva. E a questa varietà mista di buon gusto attingevano copiosamenti molti rappresentanti dell’arte internazionale, specialmente musicale.
Il Biso, che aveva avuto fin da ragazzo una particolare passione per la musica e in modo preminente per quella operistica, grazie a quanto egli poteva offrire di eccelso nell’arte culinaria ebbe occasione di venire molto spesso a contatto con i più grandi interpreti della lirica, sollecitandone i gusti più riposti per la buona tavola – come attestano le numerosissime fotografie con dedica che egli conservava con giusto orgoglio – e facendo addirittura amicizia con alcuni di loro.
Leggere tali dediche vuol dire riaprire tutto un repertorio di lodi e di schietta ammirazione per l’eccezionale arte culinaria del Biso, e colpiscono, tali scritte, per essere tutte in italiano, anche se rilasciate da cantanti e musicisti stranieri, a riprova della universalità della nostra lingua nel campo della musica.
Leggere nomi di grandi cantanti quali Caruso, Martinelli, Azzolini, Pertile, Titta Ruffo. Gigli, Lauri Volpi, Vaghi, Merli, Scialiapin, Schipa, Franci, De Franceschi, De Luca e altre celebrità femminili come la Scacciati, la Muzio, 1a Pacetti, la Caniglia, la Stignani, la Caracciolo, è come passare in rassegna le più grandi voci della prima metà del ‘900.
Ma non soltanto i più celebri cantanti figurano in questa immaginaria galleria di personaggi, ma anche i più arcigni musicisti quali i grandi compositori Richard Strauss, Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi o eminenti direttori d’orchestra quali il nostro Tullio Serafin o l’ungherese Fritz Reiner, che si rivolse spiritosamente al suo dedicatario con questa frase: «Ad un grande chef che sa il suo mestiere, il pregiatissimo Sig. Francesco Biso, un altro chef che sa anche il suo, conscio della propria affermata grandezza nel campo della direzione d’orchestra».
Nel 1982, con partenza dalla «Scala» e successive tappe nei teatri d’opera di Genova, Roma e Palermo, in occasione del centenario della nascita di un altro grande direttore d’orchestra, Gino Marinuzzi, fu organizzata una mostra itinerante ricca di autografi. locandine, partiture, fotografie e giornali dedicati al direttore e compositore siciliano troppo presto scomparso. (segue)
Luigi Romani
(da Lerici In di dicembre 2018)
Fra i tanti ricordi relativi allo chef figura anche un «menu» del P/fo Duilio sul quale era scritta una marcetta composta da Gino Marinuzzi con queste parole: «0 gran Francesco tu sei dei Biso onore; glorioso cuciniere tu sei dei cuochi il re», per ringraziarlo di un piatto di sua creazione, figurante nel predetto «menu», e intitolata Palla de’ Mozzi, una delle opere liriche composte da questo Maestro.
Nello stesso transatlantico, Beniamino Gigli (che dedicherà un album dei suoi dischi al Biso) scrive anche lui su un «menu»: «Caro Biso, gli spaghetti erano degni di tanta fame! Bravo e ci rivedremo a Buenos Aires». Era un invito implicito per una serata operistica al Teatro Colon. Nell’agosto 1919, nella traversata New York-Genova sul P/fo Giuseppe Verdi, un altro grande tenore, Enrico Caruso, volle fare la caricatura all’amico Biso (vedi foto nel numero precedente ndr), e tale pezzo di bravura (è noto che il celebre tenore era eccezionalmente abile in questo campo) fu pubblicato a New York su di un giornale dell’epoca in lingua italiana.
Nel 1934, sul Conte Grande, il cardinale Segretario di Stato Eugenio Pacelli (foto a lato), futuro Papa Pio XII che si recava in Argentina quale Legato Pontificio per presiedere al Congresso Eucaristico di Buenos Aires, grato per l’assistenza dietetica prestata a lui e al suo seguito dal Biso, gli faceva conferire la decorazione vaticana “Meda-glia Benemerenti” e l’anno successivo, in occasione delle sue nozze d’argento, gli faceva pervenire la speciale benedizione di Papa Pio XI.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, il Biso si ritirava a vivere a Lerici nella casa al centro della passeggiata di fronte al mare, già dei nonni della moglie, che aveva fatto ristrutturare nel 1923. In quella casa era nato Francesco Tarabotto che al comando del Rex aveva conquistato all’Italia il Nastro Azzurro. Purtroppo, l’essere stato in passato un accanito fumatore ha portato il Biso a morire a soli 56 anni, il 4 ottobre 1942, giorno del suo onomastico. Da quando aveva abbandonato la navigazione, anche l’Italia era entrata in guerra e venne così a mancargli lo stato d’animo per godersi il tanto atteso sereno riposo fra le gioie della famiglia e l’ascolto dei numerosi dischi che aveva accumulato attraverso gli anni utilizzando un grammofono ortofonico che era una rarità per l’epoca. Quell’ascolto che in passato, nelle tranquille serate estive, durante le soste fra un viaggio e l’altro, richiamava sotto il balcone della sua casa gli amanti della buona musica e del bel canto, in un tempo in cui la radio era ancora balbettante, e che rappresenta-va per l’appassionato di musica un piacere quale oggi, tempestati come siamo da assordanti altoparlanti, è difficile immaginare, più difficile ancora che immaginare Lerici di cento anni fa.
A Lerici, patria di mille cuochi, gli «chef» in definitiva (almeno a mio ricordo, nella «N.G.I.» e nella Soc. «Italia» ), sono stati due: il Biso, appunto, e Primo Bini che era stato suo «sottochef». (fine)
Luigi Romani