(da Lerici In di dicembre 2022)
In alto, sul Caprione, riparato e nascosto dal mare, nel silenzio della campagna una volta coltivata, il borgo di S. Lorenzo era stato il rifugio dei lericini al tempo delle incursioni saracene dell’alto medioevo; cosi vuole la tradizione. Poco, o meglio niente, si conosce del borgo e della sua fine ed è difficile constatarne l’ubicazione poiché rimangono ben poche tracce, parte inglobate nei muri a secco nella campagna e soffocate dalla prorompente vegetazione e parte nelle nuove costruzioni presenti.
La storia di San Lorenzo è legata a Pugliola, a Trebiano e ai signori di quei luoghi che nel tempo vedono in Lerici il loro naturale accesso verso il mare. Come per Serra e Tellaro, nate dipendenti da Barbazzano, per Pugliola esiste un legame indissolubile con Trebiano, ma molto di più con San Lorenzo del Carpione che per i pugliolesi è ricordato come “i monti”.
Nello stesso modo i serresi e i tellarini definiscono la Rocchetta e Zanego. Si sa che nel XVI secolo, all’epoca di Agostino Giustiniani, il borgo contava ancora 100 fuochi (ndr. = cento famiglie) o almeno questo è quello che l’autore dice, poiché in alcune carte dell’epoca, San Lorenzo viene scambiato per San Terenzo.
Solitaria, la chiesa, è l’ultima testimonianza dell’antico borgo del quale non si conosce neppure il nome e che viene identificato con il titolo stesso della chiesa ubicato su carta in quella parte di territorio conosciuto come Pianizola (piantina sotto), proprio a lato di quel colle o monte Carpione che, chi non ha approfondito molto la storia locale, continua a confondere con il promontorio del più vasto e noto Caprione. Quest’ultima, la chiesa, è citata in documenti del 1100 (curia Vescovile di Sarzana) e nei Registri Vaticani delle decime dell’anno 1297 (Ugo Formentini) con la chiesa plebana di Trebiano e la cappella di Pugliola.
Nel 1303, con Trebiano si trova soltanto Pugliola che nel 1470 ricompare alle dipendenze della Pieve di Trebiano come chiesa di Santa Lucia e con la chiesa di San Francesco di Lerici. Con il passare del tempo il borgo di San Lorenzo cade definitivamente in abbandono e, nel 1700, la funzione e la fiera, che tradizionalmente si tenevano nella festa patronale, vennero trasferite a Pugliola.
Il cordone ombelicale con il luogo è ben visibile ancora oggi, quando il dieci di agosto, la gente di Pugliola e di Romito tradizionalmente risale “ai monti” per onorare il suo Santo e rivivere i luoghi della propria infanzia e i dei ricordi più o meno belli, a seconda dei tempi, comunque le proprie radici.
Si allestiva un altare all’interno della chiesa e il parroco di Pugliola celebrava la funzione; tutto poi finiva in un lauto pranzo sull’erba o nelle proprietà. Sempre la tradizione voleva che in quel giorno si evirassero i galli per farne capponi.
La pianta della chiesa è rettangolare e non in asse con l’abside semicircolare, perfettamente orientata secondo i canoni cristiani; tutto è legato al sole che nasce ad oriente (La luce di Cristo) e tramonta a occidente (Le tenebre ed il male). Il sole che era adorato anche nelle religioni pagane, diventa la continuità radicata nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo. (segue)
Gino Cabano
(da Lerici in di gennaio e febbraio 2023)
L’edificio della chiesa di san Lorenzo è costruito con piccoli blocchi di calcare locale rozzamente squadrati e disposti a filari non rigidamente ricorrenti. La sua più grande particolarità, a giudicare dalle opere rimaste, consiste nel campanile accorpato nella sua struttura muraria che permettono di riconoscere nella costruzione un esempio di protoromanico ligure.
Nuda, la chiesa già si presentava così a Guglielmo De Angelis d’Ossat nel 1934, il quale notava che la costruzione “non sembra essere stata coronata né da archetti, né da cornici e non presenta lesene e nessun altro elemento decorativo o scultoreo che possa in qualche modo fornirci elementi per una precisa datazione”.
Il catino, come si può notare (nella foto sopra), è delimitato da due robusti archi falcati e costruito con materiali a spina di pesce. L’arco, secondo il prof. Massimo Coli che a Firenze è consulente e responsabile della catalogazione delle pietre dure dell’Opera del Duomo e del Battistero di San Giovanni, notava una similitudine con quest’ultimo, tale da far supporre che colui che materialmente ha contribuito alla costruzione dell’abside fosse un personaggio di eccellenza per una chiesina di così poca importanza, e avesse conoscenze costruttive paragonabili ai migliori “maestri” dell’epoca.
Già il De Angelis d’Ossat rilevava che “nei contrafforti dell’abside il vivo ricordo di una saggia tradizione costruttiva; infatti, questi sono ottenuti col situare opportunamente il campanile da un lato ed un robusto ingrosso della muratura dall’altro; tale rinforzo non è ottenuto con lesene o con pilastri, come avverrà nell’architettura romanica. Questi provvedimenti di ordine statico hanno determinato il sussistere – in ottimo stato di conservazione – di tutta la parte absidale, che è l’unica che abbia resistito alle distruzioni degli uomini e del tempo; mentre invece è naturalmente la più soggetta a lesionarsi e a cadere” (foto sotto).
Oggi invece il problema sussiste poiché il catino presenta una profonda lesione.
Ad eccezione delle tre monofore a doppio strombo dell’abside, altre aperture sono architravate; indizio di una remota costruzione. Come si può vedere nella foto sopra, l’abside negli Anni Settanta del secolo scorso presentava ancora evidenti tracce di intonaco affrescato. Sul lato sinistro della monofora centrale, sotto la didascalia è visibile l’immagine di San Lorenzo.
Secondo una tradizione già divulgata nel IV secolo, Lorenzo, di nazionalità spagnola, sostenne intrepido un atroce martirio su una graticola dopo aver distribuito i beni della comunità ai poveri da lui qualificati come veri tesori della Chiesa.
Rivolto all’imperatore Valeriano, mentre veniva bruciato sulla grata, disse: “Questa parte è cotta, disse, volta e mangia”. Così con la sua forza d’animo vinceva l’ardore del fuoco».
Non vi sono dubbi sull’esistenza del santo come pure del luogo della sepoltura e del martirio. L’unica incertezza rimane nella pena della graticola supportata più dalla tradizione orale che dalle fonti documentarie. Nella zona è ancora presente il seggio di una macina a remo in pietra, di cui esiste analogo esemplare presso l’isola del Tino, Barbazzano e Narbostro, quest’ultimo più piccolo degli altri e ricavato in una vena di roccia affiorante. La macina negli anni Ottanta del secolo scorso si trovava a poca distanza dalla chiesa. (foto sopra) (fine)
Gino Cabano