C’era una volta, mille anni fa, in riva al mare, una borgata chiamata “delle Cento Chiavi” con la sua chiesa dedicata all’apostolo martire san Bartolomeo…
Sembra l’inizio di una favola che da una parte parla di attacchi di pirati e dall’altra di liti furiose con una vicina collettività, due campanili in guerra. Si tratta solo di leggende locali tramandate di generazione in generazione? Linda Secoli, forte di antichi documenti in mano rimasti finora inediti, assommati agli studi d’altri ricercatori che l’hanno preceduta, nel suo ultimo libro “San Bartolomeo delle Cento Chiavi – Alle origini del borgo di Pitelli” (edizioni Giacché 2022, con contributi di Michela Corsini, Costanza De Luca e Francesca Gatti) dimostra di no: Cento Chiavi è realmente esistito e lei ce lo racconta con la serietà della studiosa ma anche con la passionalità di chi ama le proprie radici per cui non disdegna di far capolino in prima persona fra le sue pagine.
Partiamo innanzitutto dal nome curioso di “Cento Chiavi”. L’Autrice riporta (p. 46) tre supposizioni più o meno plausibili, con un “cento” che sta per “numerose”: a) “chiavi, porte, fuochi o focolari” sono tutte espressioni per indicare il termine “famiglie” (in questo caso, quindi, una comunità formata da un centinaio di nuclei familiari); b) si trattava di un’allusione a veri chiodi (dal latino clavus) la cui infissione avrebbe avuto un arcaico significato rituale; c) ci si riferiva a sorgenti (dal latino tardo medievale klava), quindi a “zona ricca di acque”: in questo caso termali, curative.
La prima ipotesi ci riporta immediatamente alla memoria Mea Shearim, uno dei più caratteristici quartieri di Gerusalemme, il cui nome significa esattamente “Cento Porte” con un riferimento biblico a Gen 26:12; per una curiosa coincidenza la zona di “Cento Chiavi” (o, quindi, “Cento Porte”) comprende l’attuale Molo Pagliari, proprio laddove La Spezia nel 1946 prese il nome con cui in Israele è conosciuta: Sha’ar (singolare che al plurale fa Shearim) Tzion, “Porta di Sion”, cioè “Porta di Gerusalemme”. Di fronte al Molo Pagliari sta la biforcazione che, lato mare, conduce al Muggiano, San Terenzo e Lerici e, lato monte, va per l’appunto verso Pitelli.
Ma è un toponimo noto anche altrove, per esempio per l’abbazia altomedievale di Cento Porte (Giurdignano, Lecce). Interessante notare poi che lo stesso toponimo ligure Chiavari viene fatto risalire al latino medievale clavaro, chiave, e interpretato come “Chiave” (cioè “accesso”) di Ri, quando prima del Mille la situazione dei due abitati era inversamente proporzionale a quella d’oggi, essendo allora Ri un borgo agricolo prosperoso (con un castello, due chiese e una casa pretoria) mentre il litorale (Borgolungo) nient’altro che una piccola fascia abitata da pescatori.
Più fantasiosa la seconda teoria esposta (quella di Ubaldo Formentini), mentre alla terza Linda Secoli dona ampio spazio dedicandole un intero capitolo intitolato Le fonti termali: i cosiddetti “Bagni di Pitelli”.
Altri due punti focali dell’opera: il culto di san Bartolomeo con le due chiese, prima quella sul mare, e poi quella edificata in alto, sul crinale; e l’hospitale nella funzione che questa istituzione aveva nell’età di mezzo.
Grande rilievo viene dato all’apparato iconografico, in particolare all’antica cartografia, e alla suggestiva testimonianza delle celebri vedute di Agostino Fossati.
Ampio spazio è dedicato inoltre al grande quadro intitolato Crocefissione con Vergine e Santi e datato 1590 che, durante il recente restauro completato nel 2018, ha rivelato al di sotto una versione precedente, per cui la restauratrice Francesca Gatti commenta: «Ciò può significare che l’eventuale stesura sottostante poteva potenzialmente essere uno dei prototipi di dipinto su tela più antichi del nostro territorio, dato che le opere pittoriche antecedenti la prima metà del Cinquecento, nelle nostre zone, erano ancora tradizionalmente eseguite su tavola» (p. 123).
E questa non è l’unica scoperta di tale viaggio nel tempo: fra documenti trascritti, scoperte d’archivio, carte date alle fiamme dagli arcolani, costruzione di strutture militari e cantieristiche che si sono sovrapposte all’originaria fisionomia della costa cancellando, ci vorrebbero davvero… “cento chiavi” per aprire tutte le stanze del mistero che Linda Secoli ha affrontato con cipiglio da detective.
Per la diatriba con la gente di Arcola (che palesa alla base di tale secolare conflitto dei consistenti risvolti economici) di particolare interesse è il capitolo Sisto V, Clemente VIII e Urbano VIII: tre papi coinvolti nella “questione pitellese”.
E gli attacchi corsari per cui gli abitanti di San Bartolomeo delle Cento Chiavi dovettero rifugiarsi in alto e fondare Pitelli? Ci sono stati davvero o erano soltanto una tradizionale fiaba per bambini? La risposta dell’Autrice è lapidaria: è proprio storia, perché ne parlano vari documenti ufficiali come dati di fatto acquisiti.
E, visto che la storia la fanno le collettività, il ritratto della gente di Pitelli che ne vien fuori è quello di persone determinate a difendere i propri diritti, a rivendicare con orgoglio la propria identità. Già nel Seicento si ritrovano cognomi ancor oggi comuni nel paese come Paoletti, Porrini, Rebolini, Simonini… uomini che componevano allora il Giuspatronato dei Capi di Casa.
Si permetta, a questo punto, pure a me, che ho vissuto a Pitelli i primi vent’anni della mia vita e poi periodicamente altri secondo vicende familiari e lavorative, un’incursione nel personale: anche mio padre (miracolosamente sopravvissuto appena nato in una casa della Lama sventrata dallo scoppio di Falconara) mi raccontava quand’ero piccola le stesse cose: de A Tana do l’Oo [La Tana del Lupo] e delle incursioni dei pirati alla marina, sino ad arrivare persino a un Felice Orsini in fuga dopo aver inutilmente cercato di far insorgere Sarzana.
Maria Luisa Eguez