(da Lerici In di aprile 2022)
Lo scorso 5 marzo è ricorso il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini. L’evento è stato ricordato da ogni parte ché PPP è un tassello importante del Novecento che ha indagato la trasformazione che si produceva nella società contemporanea e i linguaggi con cui il cambiamento si manifestava. Inizialmente poeta, si fece scrittore e poi saggista, documentarista, regista, esegeta critico di un mondo in cui non si riconosceva più perché massificava inquadrando le persone in un’uni-ca categoria che cancellava le loro forme primigenie di appartenenza: omologando, massificando, annientando la differenziazione culturale. Chissà che cosa mai avrebbe scritto della globalizzazione se non fosse stato ammazzato un quarto di secolo prima!
Di lui restano gli stilemi dell’indagine ma è difficile accettarne le conclusioni.
Non mi ha mai convinto che non accettasse le situazioni senza proporre un’alter-nativa, che giudicasse una disgrazia quello che noi oggi siamo abituati a considerare un’opportunità per una crescita diversa.
L’ho sempre considerato un reazionario non perché ordisse trame ma perché vagheggiava ritorni resi impossibili dalla ruota della storia. Diceva che le lucciole erano scomparse per i pesticidi ma non suggeriva una diversa coltivazione perché, se rispettiamo gli insetti, occorre ugualmente produrre per tutti ché tutti hanno diritto al cibo.
Siccome, però, a argomentazioni di questo tipo serve altro che una paginetta di giornale, è meglio ricordare Pasolini come ospite di Lerici.
L’editore e conte Valentino Bompiani nella seconda metà degli Anni Quaranta, siamo nel dopoguerra, invitava gli intellettuali nella sua villa alla Rupe Canina sul poggio di Lerici, prima forma del cenacolo culturale che si sviluppò poi nell’area.
Fra gli ospiti c’è anche un giovane Pier Paolo che del soggiorno sulla costa lericina lascia un ricordo in un poemetto scritto in quel periodo, 1949, ma pubblicato nove anni dopo in “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, una riflessione in versi sciolti sul suo disagio crescente nei confronti dell’istituzione ecclesiastica, discorso ardito, non nuovo ma avanzato, scandaloso.
Poi in un tale contesto all’improvviso si apre uno scenario nuovo, diverso: è quello che si vede nel Golfo quando la mattina deve ancora arrivare. Mentre sul mare soffia una brezza non ancora scaldata dal sole, nell’incerta luce gli si staglia davanti la collina di ulivi di Lerici e in lontananza le luci della Spezia. Ma non si vede bene, non si sa che cosa c’è dietro la siepe.
Tutt’a un tratto la rivelazione. La porta Shelley, il mito il simbolo, e tutto è improvvisamente chiaro, ben delineato nei suoi contorni. Ora si sa che cosa c’è.
Shelley, la poesia, la cultura, lo strumento che ogni uomo ha a disposizione per eliminare qualsiasi dubbio e trovare certezze che sono rifugio alle sue inquietudini.
L’Italia, cap. III, vv. 1-8, in L’usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, 1958:
… Fresco tremava il monte di Lerici d’olii azzurri
davanti al battello tra le luci della Spezia.
mentre l’inverno accarezzava l’alba
con mani dolci di brezze, amare di sole.
E la baia di Shelley come in una stampa
dove il verde si stinge nell’azzurro
approdando accorava l’aria di Portovenere;
poi sorse il mattino e tutto fu bianco.
Alberto Scaramuccia