(da Lerici In di dicembre 2024)

Fra gli eventi più attesi di quest’inverno la serie televisiva di Rai 1 sugli esordi giornalistici di Miss Fallaci. Interpreta Oriana l’attrice Miriam Leone, che vi ha lavorato gomito a gomito con Edoardo Perazzi, nipote ed erede universale della Fallaci, per riuscire a indossare al massimo possibile i panni di colei che è diventata una delle firme più geniali del giornalismo italiano. Di quella che è stata la prima donna italiana a essere mandata su un fronte di guerra come inviata speciale. Ma Oriana Fallaci, oltre che scrivere articoli per le più prestigiose testate nazionali (Epoca, L’Europeo, Corriere della sera), ha pure pubblicato una dozzina di libri in larga parte autobiografici. L’ultimo, la rocambolesca saga della sua famiglia, Un cappello pieno di ciliege (Rizzoli, Milano 2008). In quest’opera Oriana Fallaci ricostruisce, di generazione in generazione, le storie di famiglia.

Lo fa attingendo da decennali ricerche archivistiche, dalle memorie dei nonni, dalle sue personali circa una cassapanca cinquecentesca che per quasi due secoli aveva contenuto i cimeli di cinque generazioni e andata poi distrutta da un tremendo bombardamento su Firenze nel 1944. E da poche altre cose di casa sopravvissute alla seconda guerra mondiale e da lei conservate con grande cura. Laddove mancano dei tasselli documentabili, l’autrice supplisce con l’intuizione razionale ma anche con una creatività smossa dalla sua grande capacità di immergersi nel terreno delle proprie radici per ascoltare cosa le suggerisca il suo DNA.

È in Un cappello pieno di ciliege che l’autrice racconta, dunque, dell’amicizia che legò un suo avo, Giovanni Cantini, nato il 6 dicembre 1783 nel Livornese, a Percy e Mary Shelley. Di professione vetturale lui e con un forte temperamento rivoluzionario.

“[Il nonno Augusto] sul suo [di Giovanni, n.d.r.] passaggio dal Bonapartismo alla Carboneria non si risparmiava, e forniva un racconto preciso. Nel 1818, diceva, Giovanni andava spesso a Pisa: città che con la carrozza a doppio tiro, da Livorno si raggiungeva in un paio d’ore. A Pisa cercava clienti al Tre Donzelle, un albergo amato dai forestieri, e nel maggio del 1818 al Tre Donzelle arrivò una coppia di inglesi simpatici: Percy Shelley e la moglie Mary. Quella di Frankenstein.

«Siete libero, brav’uomo?» chiese Shelley che l’italiano lo parlava piuttosto bene. «Per il Buongoverno, [Nota 1] no. Per voi sì» rispose Giovanni. E poiché con quella messa a punto s’erano capiti in pieno, al suo servizio ci rimase due mesi. Lo portò pure ai Bagni di Lucca. Ma non come uno che tiene le redini dei cavalli e basta: come un segretario tuttofare, una persona di fiducia e con la quale t’intendi. Sor Shelley qui, sor Shelley là. Sor Giovanni qui, sor Giovanni là. Divennero intimi, capisci? Tanto intimi che, se non pioveva o se Mary non c’era, anziché starsene comodo nella carrozza gli sedeva accanto cioè a cassetta. Prendeva a parlargli di politica e roba del genere. Bè, se per due mesi scarrozzi a quel modo un uomo gioviale che oltre ad essere un gran poeta è un tipo che ce l’ha coi despoti, che ti parla della Costituzione, che ti spiega chi sono i carbonari, impari a pensare meglio che nella bottega del Ginesi. […]

Percy Shelley

Poi Shelley andò a Venezia dal suo amico Byron, di lì a Roma e a Firenze o chissaddove, e lasciò il neodiscepolo nei dubbi. L’anno dopo però riapparve, e in giugno si piazzò con Mary a Livorno per restarci l’intera estate. Giovanni ricominciò a scarrozzarlo, ascoltarlo, a riascoltarlo si persuase che la libertà bisogna conquistarsela da soli, ed entrò a far parte della Carboneria.

Oh, sulla commovente intesa fra il gran poeta e il rozzo vetturale il nonno Augusto diceva molto di più. Che i due avevan cessato di vedersi solo nel luglio del 1822 cioè il mese in cui l’appena ventinovenne Shelley era naufragato con il suo schooner dinanzi a La Spezia, che quando il corpo era stato ritrovato sulla spiaggia di Viareggio l’affranto Giovanni aveva pianto come una donna, che per onorarne la memoria s’era studiato un po’ d’inglese e in inglese recitava sempre una strofa d’una sua poesia […]. A volte si divertiva anche a dire che nel 1821 Shelley lo aveva presentato a Byron appena giunto a Pisa con una corte di domestici, uccelli esotici, altri animali tra cui numerose scimmie, e che Byron non gli era piaciuto. Gli era parso un mariuolo di lusso. Però il suo narrare si condensava sui due mesi che maestro e discepolo avevan trascorso insieme dopo l’incontro al Tre Donzelle, sull’estate seguente cioè l’estate che al discepolo aveva sciolto gli ultimi dubbi, e sul passo che a quel punto egli aveva compiuto.

Questo mi autorizza a concludere che nel 1819 Giovanni era già carbonaro. Quanto all’anno successivo, ne ho la prova assoluta. Quella che per puro caso ho trovato negli sconfinati archivi del Buongoverno e dalla quale risulta che il 27 luglio del 1820 il giudice Paoli, successore del Serafini, ricevette una folle autodenuncia accompagnata da sgangherate minacce in versi […].

Sotto un triangolo celeste, rosso e nero, i colori della prima Carboneria, la folle autodenuncia elenca infatti quindici nomi di carbonari livornesi. Coi nomi fornisce il numero dei proseliti raccolti da ciascuno nelle varie città della Toscana, e al dodicesimo posto c’è lui che di proseliti ne dichiara quattordici a Lucca.

«Cantini Giovanni. Lucca. 14.»” [Nota 2].       (segue)

Maria Luisa Eguez

Note: 1 – Direzione superiore della polizia nel Granducato di Toscana

2 – Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege, p. 265-266

(da Lerici In di gennaio 2025) SECONDA e ultima PARTE

Il 30 novembre 1786 il Granducato di Toscana fu il primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte e le torture su provvedimento dell’allora regnante Pietro Leopoldo. Questi non disdegnava neanche di dare rifugio entro i suoi confini a perseguitati politici in fuga dagli altri stati. Dato il clima di libertà che si respirava da decenni nelle città toscane, non c’è da stupirsi se Byron e Shelley se ne sentissero particolarmente attratti.

In Un cappello pieno di ciliege Oriana Fallaci  continua infatti a fornire a questo proposito altri particolari raccolti dalla viva voce dei suoi nonni.

“Ben per questo, dopo essersi compromesso coi carbonari di Ravenna e con la congiura diretta dal padre della sua amante Teresa Gamba Guiccioli, Byron s’era trasferito a Pisa. Ben per questo Shelley preferiva Pisa e Livorno e Firenze a Napoli o Roma o Venezia. Ben per questo la Toscana veniva chiamata Paradiso degli Esuli, Regno del Bengodi [1].

Terre di rifugio la Toscana e questo nostro territorio che le sta a ridosso, del resto, le furono non solo dalle persecuzioni politiche risorgimentali ma anche da altre avversità naturali come un’epidemia. Difatti la Fallaci aveva già avuto modo di parlare anche di ciò.

Nel 1804 giunse a Livorno un vascello spagnolo, l’Anna Maria Toletana, il cui carico includeva trenta piume di struzzo per il guardaroba di Maria Luisa.[2] Il vascello veniva da Vera Cruz dove c’erano stati diversi casi di febbre gialla, ed aveva già diffuso il contagio nei porti di Cadice e Barcellona. Stando alle leggi sanitarie, avrebbe dovuto restare in quarantena almeno un mese. Ma la stupida donna voleva subito le sue piume di struzzo, a quanto pare indispensabili per il bavero d’un abito da cerimonia: ordinò che il mese fosse ridotto a tre giorni e l’epidemia esplose uccidendo seicento persone fra cui Alfonsa. [3] Allora Francesco [4] mandò i tre figli minori sulle montagne di Sarzana con Ester [5] e Monserrat. [6] Si prese i due maggiori, li mise sulla sua filuga, [7] ce li tenne finché l’epidemia durò e se non fosse stato per questo né Raffae-le né Gabriele avrebbero mai avuto modo di scoprire se navigare gli piaceva o no” [8].

François-Xavier Fabre, Ritratto di Maria Luisa di Borbone-Spagna,
regina d’Etruria, olio su tela,1801, Palazzo Pitti
 

Il mare piacerà a tutti e quattro i figli più grandi, anche a Emanuele e Daniele. La famiglia che vuol essere ingaggiata tutta assieme: «O tutti o nessuno» [9], il padre nostromo e quattro giovani marinai, diventa presto una leggenda nel porto labronico:

“Vederli arrivare e partire, a braccetto o in fila dietro al padre nostromo, era uno spettacolo che scaldava il cuore. Sempre più aitanti, sempre più esuberanti, simpatici, sembravano l’uno la copia dell’altro; l’immagine stessa della concordia” [10].

Sino a quell’imbarco su di un pinco, [11] il Santa Speranza, alla mercé di un comandante alcolizzato, soprannominato Padron Trinca. Del viaggio da Livorno alla Spagna attraverso l’insidioso Golfo del Lione, luogo del loro naufragio, Oriana Fallaci racconta:

“La merce caricata a Livorno pesava poco. Tè, caffè, noce moscata, cannella, pepe e altre spezie. Così avevan dovuto riempire la stiva con un mucchio di zavorra. Sacchi di rena, casse di sabbia, pietre, pattume da buttar via a Genova dove c’era da imbarcare cento barili d’olio e cento di vino. Ma a Genova giunsero in ritardo, una burrasca invernale li aveva costretti a rimanere due giorni nel porto di La Spezia[12].

Macrostoria e microstoria procedono di pari passo. Affiancata alla genealogia dei Launaro prosegue quella dei Cantini: Mariarosa e Giobatta, con quest’ultimo a Curtatone e Montanara nel contingente dei volontari toscani (1848).

“Addì 2 aprile, domenica. Moglie mia adorata che nella pancia porti il nostro bambino, oggi siamo arrivati a Pontremoli”.  “Addì 15 aprile, sabato. Moglie mia, madre del mio bambino […]. Pensa che da Pontremoli si doveva andar dritti a Parma varcando gli Appennini al Passo della Cisa. Ma il governo di Parma ci mandò a dire che a Parma non ci voleva, il mio colonnello venne costretto a puntar su Reggio Emilia cioè  varcar gli Appennini al Passo del Cerreto, e per pigliar quello dovette riportarci a Fivizzano”. “Addì 3 maggio, mercoledì. Moglie mia, ti scrivo da un posto che si chiama Curtatone […]. Curtatone è un paese piccino piccino con qualche casa colonica e basta” [13].

Ancora un accenno alle nostre zone lo troviamo a pagina 553 di Un cappello pieno di ciliege in una citazione della spezzina Virginia Oldoini contessa di Castiglione come esempio insuperabile di eleganza, quando di “Napoleon” e “Amanda” scrive:

“La miglior coppia di birboni che avesse mai funestato il Nevada. Insieme erano anche molto felici. Carrozza tirata da quattro cavalli e guidata da un cocchiere in livrea. Mansion (villa con parco) sulla collina. Guardaroba degni di Lord Brummel e della contessa di Castiglione nonché un amore da capogiro”.

Maria Luisa Eguez

NOTE

[1] Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege, p. 268

[2] Figlia di Carlo IV di Spagna, aveva sposato nel 1795 Ludovico di Borbone-Parma, diventato nel 1801  re d’Etruria. Presto si trovò in mani  le redini del governo toscano, prima perché il marito era malato, poi alla sua morte perché il figlio Carlo Ludovico era ancora minorenne. Dal congresso di Vienna Maria Luisa ottenne il ducato di Lucca da cambiare alla morte di Maria Luisa d’Austria con quello di Parma.

[3] Una domestica di casa Launaro.

[4] Appartenente al ramo materno Lau-naro dei progenitori di Oriana Fallaci.

[5] L’altra domestica.

[6] Maria Ignacia Josepha, detta Montserrat, moglie di Francesco.

[7] Piccola imbarcazione da pesca.

[8] P. 216

[9] P. 217

[10] Ibidem

[11] Il pinco (o pincogenovese) era un tipo di nave mercantile a tre alberi, a vela latina con prua a sperone e poppa a specchio. La sua portata andava dalle 50 alle 200 t. Ebbe larga diffusione nella marineria ligure tra la fine del XVII e gli inizi del XIX secolo.

[12] P. 221.